Testimonianze



da IL ROMA  del 31 maggio 2018






da IL ROMA  del 20 ottobre 2017










































da LA NUOVA DEL SUD  dell' 1 agosto 2017




Michele Brancale ( da Toscana Oggi del 9 luglio 2017)





dalla GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO del 3 luglio 2017






da IL ROMA  del 26 giugno 2017





da LA NUOVA DEL SUD  del 24 giugno 2017






 da LA NUOVA DEL SUD  del 21 giugno 2017







Angela Salvatore per Sineresi (Il Quotidiano del Sud del 19 marzo 2015)




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Lucia Serino per Sineresi (Il Quotidiano del Sud del 17 marzo 2015)





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 "Diphda non è solo un gatto" a Milano (2 ottobre 2014)




La Gazzetta del Mezzogiorno 2 ottobre 2014



Il Quotidiano della Basilicata 2 ottobre 2014



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 Un viaggio nelle incertezze della vita
(Chiostro del Comune di Avigliano, 29 giugno 2014)

 di Vito Santarsiero


"Diphda non è solo un gatto" è fondamentalmente un bel libro di Anna Rivelli, l'ho letto con piacere e vi offro una mia personale recensione.Volume delizioso,divertente,filosofico,in alcuni momenti esilarante.Le apparizioni di un gatto morto che avvengono da tempo nella casa di Pier unitamente ad altri eventi misteriosi ed inspiegabili,coinvolgono via via anche i suoi amici in una costante e progressiva azione demolitrice delle loro certezze poste in una "rassicurante e plausibile razionalità " che nega ogni forma di mistero e di trascendenza del reale, sino a farli ritrovare smarriti dinanzi a vicende surreali destinate ad annullare i loro "ultimi residui di razionalità". È un viaggio nelle incertezze della vita senza avere l'ambizione di offrire soluzioni. Ciascuno dei sette giovani come Greg "l'ipotesi che esistesse un'anima l'aveva abbandonata sopra il banco della prima Comunione e gli oggetti fatati li aveva confinati nell'irrealtà da quando a otto anni il tappeto della sua cameretta non ne aveva voluto sapere di fargli sorvolare il mondo come Aladin",tutti però, anche i più scettici, restano stupiti,sorpresi,impauriti dinanzi alle vicende surreali che vivono senza riuscire ad elaborare alcun pensiero se non esprimere sbigottiti commenti e l'incredula ricostruzione dei fatti.È il segnale di una debolezza culturale che appartiene ad una generazione tanto gioiosa e preparata quanto poco riflessiva sui problemi più veri e profondi della vita. Le riflessioni più belle appartengono alla lettera di Mom, un vero ammonimento,e a quelle che accompagnano qui e lì il testo. Il libro non lascia soluzioni ai temi della morte,della sofferenza, della bellezza, pone i problemi, offre stimoli ma sostanzialmente lascia tutto sospeso tranne la certezza che ci trasferisce con Gibran ( quel continuo apparire del volume del poeta Libanese è un po' come volerlo indicare ,con la sua visione della vita, a faro e riferimento) : "ma l'eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo" e "ogni cosa che esiste è solo una parte del tutto e,per ciò stesso,è il tutto.E il tutto,non può essere "solo" il tutto". Tra misteri, paure e discussioni il libro ci offre anche momenti di grande comicità nelle varie e paradossali situazioni che si determinano con l'apparire e scomparire di Diphda. Una avvincente lettura per la nostra estate.




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Il gatto Diphda protagonista nel Chiostro del Comune
(Articolo del Quotidiano della Basilicata del 2 luglio 2014)

  di Angela Salvatore
Diphda è la stella beta della costellazione della Balena, non è solo un gatto? Ma se non è solo un gatto allora che cos'è? È la domanda che ogni lettore si porrà davanti all' allegorico e avvincente romanzo della nota poetessa e scrittrice lucana Anna R. G. Rivelli.
L'opera dal titolo "Diphda non è solo un gatto" Edizioni Tracce è sicuramente il frutto di un appassionato e intenso lavoro di un'autrice di particolare acume e sensibilità.  Rivelli, con un libro che sin dalle prime battute assume contorni spirituali e immateriali, travalicando la materialità e finitezza della scrittura,  è alla ricerca di risposte che investono l'intera esistenza e che mettono in discussione dogmi apparenti.
"Lea e Pier avevano adottato entrambi la medesima strategia che, alla fine, è quella che accomuna molti uomini: fingere, non farsi domande, lasciar perdere così da accomodare l'esistenza in certezze mendaci piuttosto che scomodarla dentro verità incerte" - scrive in un passo dell'opera.
Il protagonista indiscusso del libro è  Diphda, un gatto che ad un certo punto muore, nel senso fisico del termine, ma al di là di ogni ragionevole dubbio, continua a vivere e a mostrare i segni della sua presenza non come un'ombra che si aggira in casa di Pier, bensì come un'entità dal ruolo ben preciso.
Lo spirito dell'animale che aleggia negli ambienti domestici, si inserisce in un contesto narrativo più ampio e disseminato di espedienti letterari diversi, ma convergenti in un unico punto: la presa di coscienza dell'importanza di un soffio vitale dell'Universo che, in un continuum spazio -temporale,  riunisce tutti gli esseri viventi senza distinzioni o gerarchie. 
Comprendere che siamo parte di un tutto che non ha soluzione, ma come filo che si dipana all'infinito,  muta la sostanza ma non l'essenza, non è affatto semplice: è un pensiero che ci spinge alla radice di una natura così mutevole,  talmente vasta, da non poter essere afferrata con gli schemi della ragione.
"Pier dal canto suo, piuttosto che dover mettere in discussione tutta la sua visione della vita, faceva come nulla fosse, con l'assurda pretesa che la realtà presto o tardi  dovesse adattarsi al suo sentire"- scrive Rivelli.
Demoliti i pilastri della conoscenza,  in un retaggio di concezioni filosofiche dal sapore antico e intrise del mistero e del sincretismo delle religioni orientali, non resta che lasciarsi guidare dalla voce dell'artista che cerca di scomporre il buio dell'esistenza con la sua opera paideutica e liberatoria.
È la trama stessa del romanzo,  infatti, a fornire un punto di approdo al comune senso di smarrimento di un gruppo di giovani che vagano come rami abbandonati nel mare della vita.
Nel corso della presentazione del volume presso il Chiostro del Comune di Avigliano, proprio su quest'ultimo aspetto ha soffermato la sua attenzione il consigliere regionale Vito Santarsiero, ribadendo l'importanza di un punto di riferimento per quanti, da soli, non riescano ad afferrare il bandolo della propria esistenza e abbiano bisogno di trovare le giuste risposte a cruciali interrogativi.
Un armadio sormontato da inquietanti mascheroni, un libro di Gibran, le fatemorgone, nel libro non sono altro che simboli del mistero della vita, elementi che affascinano ma nello stesso tempo tormentano. Sono immagini dalla duplice valenza: affiorano in punti specifici della narrazione per risolvere la trama e inducono il lettore a valicare i confini della parola, trascendendo la scrittura.
Laddove con la ragione non è possibile andare avanti, bisogna lasciarsi trasportare da "quell'alito che ci fa vivi già sulla soglia della nostra vita e sul suo limite estremo". L'iniziativa promossa da un'associazione lucana che non a caso prende il nome di Lucanima, presieduta da Mara Sabia, ha riunito in un unico e grande soffio poesia, filosofia,  letteratura,  religione.


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Articolo del Quotidiano della Basilicata del 18 maggio 2014

  di Angela Salvatore
 



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Articolo del Quotidiano della Basilicata del 6 maggio 2014

  di Angela Salvatore




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Il linguaggio poetico di Anna R.G.Rivelli nella silloge La voce che scompone il buio.

 (Biblioteca comunale - Tramutola, 3 maggio 2014)

            di Francesco Saverio Lioi




Una poesia non facile questa della Rivelli, ma spontanea e che ha nella parola straniata dalla lingua d’uso la speranza di accedere al mistero della esistenza destinata a vivere nel dubbio; di trovare un appiglio che risolva il buio che circonda la vita, e questo appiglio per la nostra poetessa è l’arte poetica, solo la poesia può dare l’appagamento ai tanti quesiti che giornalmente angustiano la vita. La voce della poesia, secondo la nostra poetessa, squarcia le tenebre della vita.

 La tecnica del verso, il linguaggio poetico, la maturazione del messaggio umano che traspira dai versi hanno acquistato di volta in volta una sempre più completa consapevolezza. Il lettore superficiale può trovare distrutto, disintegrato il verso, ma deve inchinarsi di fronte alla ricerca della essenzialità della parola, attraverso le infinite modulazioni che la libera da ogni incrostazione letteraria, e non comprime l’afflato lirico-culturale che promana da un substrato  consolidato, oseremmo dire, da vis poetica. La poesia della Rivelli è affidata alla suggestione fonica delle parole piuttosto che a un coordinato disegno di strofe e di rime, è lontana dal semplicismo e dalla discorsività superficiale e narrativa di tante raccolte di versi che oggi incrementano il numero di libelli di sedicenti poeti. I frammenti lirici della Rivelli senza dubbio possono essere acquisiti alla coscienza poetica di questo terzo millennio ed entrare di diritto non solo nella letteratura lucana. Interessante sarebbe chiedere alla poetessa le varianti che ha apportato alla formulazione di ogni testo, ci darebbero il percorso che ha dovuto fare per giungere al testo definitivo. Le varianti svelano non solo il percorso linguistico, metrico e di ritmo, ma anche di pensiero, perché una parola non porta solo il significato letterale, ma anche quello che essa acquista dal contesto, dalla callida iunctura che dà nuovo e più pregnante significato ad una parola messa in un determinato contesto.

 Prendiamo un testo della Rivelli, estrapoliamo da esso una parola, vedremo che questa non ha solamente il suo significato letterale, ma acquista più pregnanza andando al di là del suo significato d’uso. Non dalla silloge in questione per non togliere al lettore il piacere di una sua interpretazione, ma come esempio l’incipit della silloge Se il resto tace.

 È pace / Non dorme la notte / ascolta / l’armonia dei pianeti / seduta sui tetti / con le gambe penzoloni.

La notte è di per sé molto poetica, perché confondendo gli oggetti, dà delle cose un’immagine vaga, indistinta e perciò di pace. La notte ascolta l’armonia dei pianeti, con uno scambio di sensazioni che vanno dalle visive alle uditive. La poetessa non vede, ma ascolta la bellezza dell’universo, dei pianeti: tanto si è innaturata, intimamente unita alla natura, che non ha potuto usare altra parola che armonia, parola che ha nell’etimo greco ar l’idea di un’intima unione ( ar = unione, mon suffisso aggettivale che indica disposizione, ia suffisso nominale che indica l’azione e il suo effetto, il verbo greco harmo significa unisco). Il termine armonia, oltre al significato usuale di concordanza di suoni e di voci, vuole indicare l’intima unione dell’animo della poetessa con la natura, l’innaturarsi nello spazio cosmico. Senza dubbio è questa una interpretazione che non tutti i lettori potrebbero condividere, ma la poesia per sua natura è ambigua e si presta ad interpretazioni diverse, come dicono i secoli di studi sulla Divina Commedia.

Il linguaggio poetico della Rivelli offre un uso sapiente delle figure retoriche e una lingua che scaturisce da un profondo sentire le cose. L’armonia per la Rivelli non la si ascolta, si vede con la mente, si sente con l’anima. Così la voce nel titolo della silloge oggetto della nostra chiacchierata non rompe il silenzio, ma scompone il buio, quasi che un grido illumina l’oscurità frammentandola e analizzandola in tutte le sue componenti. Ma qui, certo, è la voce poetica che squarcia il buio della mente, che apre orizzonti infiniti a problematiche esistenziali che solo la poesia può lenire. E il linguaggio poetico per sua natura è metaforico e porta il lettore sempre al di là di quello che la lettura letterale o soggettiva esprime. Polisemia e metafora, pertanto, sono la base del linguaggio poetico. Un lettore consapevole studia la struttura metrica, ritmica, fonica e semantica di un testo. La lingua così sviluppa le proprie potenzialità evocative ed espressive, ed ha alla base lo straniamento dal linguaggio usato non solo giornalmente, ma anche da quello della prosa. Questa normalmente presume razionalità, chiarezza, proprietà di lingua, quella ha alla base il sentire poetico e l’immaginazione, quindi l’uso della metafora, della sinestesia, delle figure retoriche in generale. Ha bisogno pertanto la lingua poetica dell’ermeneutica, di essere cioè interpretata. Spesso un testo poetico dice al lettore non quello che il poeta ha voluto dire, ma quello che l’interprete gli vuole far dire, ma questo significa travisare il testo.

Chi è pertanto l’interprete? Questa parola, come del resto tutto l’italiano, ha come base il latino, ed il latino ha origine dal linguaggio rurale. Nell’antica Roma l’interprete era colui che determinava il prezzo di un animale, di una merce, inter praetium, era pertanto l’intermediario tra la merce da vendere e il compratore. Il termine è passato in un secondo tempo ad indicare un lavoro intellettuale, e l’interprete è colui che si pone tra il testo dell’autore e il messaggio che l’autore vuole lanciare ai lettori. I lettori sono tanti nel tempo e nello spazio, ognuno di noi è lettore interprete che il più delle volte adatta a sé il portato poetico del testo col quale fa i conti.     Il linguaggio poetico può diventare duro, faticoso, ermetico, quasi scontroso, privo di lirismo o di musicalità, ma il lirismo e la musicalità son dati dalla parola e dal significato allegorico e metaforico che questa nasconde, son dati dal ritmo che le parole assumono nella frase poetica.  Diventa allusivo con parole non comuni che rimandano ad una realtà spesso priva di certezze. Bonsera ha dimostrato cosa allude il termine chitone, termine che indica un indumento oggi in uso, ma che rimanda allusivamente ad un mondo lontano nel tempo,  termine usato nella lirica che dà titolo alla silloge che questa sera abbiamo l’onore di presentare al pubblico di Tramutola. Solo la poetessa può dire se la mia interpretazione di armonia e quella di Bonsera di chitone sono giuste.  Diventa criptico il linguaggio poetico perché il travaglio esistenziale che fa da sottofondo a molte liriche deve spingere il lettore ad una meditazione sul contenuto poetico prima che al godimento estetico che la lettura di una lirica deve dare. Il godimento estetico capterà il lettore quando avrà capito il testo e si sarà formata un’empatia fra autore e lettore.

Le liriche di questa silloge mettono il lettore psicologicamente e ideologicamente di fronte ad un volontà di negazione e di confronto con la necessità. Tu, uomo, non chiederti il perché il male di vivere giunge col vento di un agosto inerme. Scire nefas, dice la poetessa.  La negatività, data dal male di vivere, ignobile balzello che l’uomo è costretto a pagare, viene espressa con la scomposizione del verso e  con una disgregazione formale che formano un reticolo di contingenze che toccano da vicino la vita. La natura è presentata nel suo essere, l’orizzonte glabro, che non permette nulla di buono come un uomo imberbe, glabro. È l’immagine qui che esprime la negatività, della quale conoscere il perché non è lecito. Cosa porterà il domani con quell’orizzonte glabro, nel quale la città perde vigore , tu, uomo non chiedere. Cosa sarà domani la tua vita, adolescente glabro? Scire nefas. Il nefas è un qualcosa voluto dal fato, di fronte al quale l’uomo è impotente. Il nefas e il fas per gli antichi erano di dominio assoluto della divinità, e l’uomo non poteva farci nulla! La poetica del non, del negativo viene da lontano: Orazio, l’epigramma greco, Montale. Le liriche iniziano con immediatezza carica di rilevanza esistenziale, senza fronzoli e descrizioni inutili che allontanerebbero il lettore dal nucleo essenziale del messaggio poetico. I versi scarnificati, senza segni diacritici ripropongono la tecnica ed il ritmo fonico ungarettiano, non perdono la essenzialità di una lettura ritmica, conservano il senso unitario e definiscono lo stato d’animo della poetessa che ha ispirato la lirica. Stato d’animo spesso chiuso in una composizione ad anello come nella lirica Con le mie mani ancora piene di favole.

Il debito che la Rivelli ha contratto con la cultura letteraria classica e moderna può essere rilevato da una attenta e meditata lettura di testi di non facile ed immediata comprensione. Basta un sostantivo, un nome a svelare il legame fra la Rivelli e la cultura classica e italiana. Leggiamo Le tue finestre a settentrione. Le suggestioni vanno dall’epica greco-romana, alla tragedia classica e a tutto il mondo poetico magno greco. Non descrizioni e prese di posizioni, ma una parola, un’allusione e con una grande efficacia espressiva si apre un mondo. I versi di questa silloge, ma non solo di questa, sono venati da una sottesa cripticità poetica, che va interpretata con acume, sono coperti da un sottile velo che va sollevato con una puntigliosa ermeneutica per trarre fuori cosa nascondono con la loro arte allusiva. Sembra che la poetessa non voglia rivelare il nucleo centrale del componimento racchiuso spesso in una metafora. Le liriche nascono da un rifiuto formale della tradizione metrica, non certo da una profonda e sentita rielaborazione di questa. Il  verso strutturalmente scarno, con sostantivi non aggettivati, a volte conserva un andamento con la rima, anche con assonanza, che accentua il ritmo, come in:

Un alibi di mare spiazza / Le tue finestre a settentrione / E muta in paradosso di certezze / La distrazione
Non si vuole certo limitare la fonte di ispirazione della Rivelli, che scaturisce da un sentire le cose con animo profondamente poetico. Anna Rivelli è poeta anche nelle prose che intervallano le sue sillogi di poesie. È il caso della raccolta di prose del volume L’immanenza nella quale filo conduttore è il ritmo che danno le parole sapientemente disposte che viene spontaneo nella lettura. Le prose di Anna non hanno il verso, ma hanno tutto della poesia, linguaggio, ritmo e ispirazione, che rendono labile il confine fra prosa e poesia. Un sottile pessimismo permea i versi di questa silloge, che culmina nella lirica in prosa dell’ultima pagina dedicata alla tragedia umana che si ripete continuamente sulle acque dei nostri mari. Una prosa lirica ad anello che racconta i sogni, di quell’uomo che cercava una terra ed ha smarrito il cuore.

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Recensione alla silloge poetica "La voce che scompone il buio"
 (da IL QUOTIDIANO DELLA BASILICATA 27/04/2014)

           di Angela Salvatore

 "Oggi la poesia è un movimento clandestino di resistenza" scrive Maria Luisa Spaziani sulla condizione della poesia in Italia, espressione fulminante che ben si adatta a rappresentare la poetica di Anna G. R. Rivelli, che, nonostante l’obnubilamento di tutti i valori positivi della società italiana,  è mossa dalla fede nell’opera educatrice delle “humanae litterae” e, in particolare della poesia.
 Rivelli, docente di italiano e latino  presso il Liceo Scientifico Galilei di Potenza, vanta una variegata produzione letteraria che spazia dalla critica d’arte al giornalismo, dalla poesia alla  narrativa, grazie al possesso di una profonda cultura umanistica e di un linguaggio ricco ed espressivo che riesce a modulare nelle varie tonalità: dall’ironia polemica sino all’invettiva, alle corde del sentimentale e dell’intimismo; un linguaggio che, pur nella sua  complessità e sperimentalismo ha un solo punto di approdo nella rappresentazione dell'essere e del finito nella sua continua aspirazione a confrontarsi con l'infinito.
 L'infinito, tuttavia, non si configura come un'entità specifica di accezione cristiana, bensì come una sorta di immanenza. La stessa autrice  spiega che cosa intenda per “immanenza” nell'omonima opera edita nel 2003: l'immanenza è alla base di qualsiasi espressione artistica e nasce dall’espansione di un'emozione che,  pur materializzandosi, mantiene intatta la sua essenza spirituale. Attraverso le manifestazioni artistiche nel senso più ampio e completo del termine, finito e infinito, essere e immanenza, sembrano confondersi al punto da annullare qualsiasi distinzione. 
Nella silloge poetica appena uscita “La voce che scompone il buio”, edita dal Premio Letterario Basilicata, riscontriamo la traccia più profonda e completa di un'opera d'arte intesa nelle sue più versatili manifestazioni.  Tra le parole e le immagini,  in una totale intima fusione,  pare esserci un vivace e proficuo interscambio ben esemplificato dal titolo di una mostra dell'artista potentino Giovanni Cafarelli, legato all'autrice tanto nella vita quanto nell'arte: La voce che scompone il buio.
Che legame c'è tra un testo poetico e una mostra pittorica, il cui filo conduttore è la matericita' e cromaticita' del paesaggio lucano raffigurato nella più completa astrazione? Ciò che lega i due autori, la poetessa e il pittore, e la loro opera, è la volontà di rendere l'arte un momento di riflessione, un'occasione per pensare. La voce di ogni artista è la voce di chi tenta di scomporre il buio dell'esistenza sino ad annullarla. Rivelli,  attraverso un linguaggio ricercato in grado di fondere le sfere sensoriali,  prova a svelare il senso più profondo e celato del reale. Luce e buio convivono in un eterno dualismo ed è questo l'arduo compito in cui si cimenta l'autrice: rendere infinito e finito sempre più vicini sino a pervenire a una sintesi e a trovare le giuste risposte a molti interrogativi.
  La copertina del volume dalla preziosa veste grafica è a riguardo assai esplicativa.  Opera dell'artista Salvatore Comminiello, raffigura un orecchio attraversato da un fascio di luce su uno sfondo buio, man mano che il raggio attraversa il sentire umano la sua cosistenza si va via via diradando verso l'alto sino a disperdersi in uno spazio bianco ove non si scorge più nulla di concreto.
 La poesia di Rivelli è di impegno civile e morale e tocca più temi dalla religione al Mezzogiorno, dalla stragi di emigranti al gesto estremo di un'adolescente.
Tutti i componimenti hanno una costante: la sensibilità e l'acume di un'autrice che osserva la realtà senza filtri e che, in assoluta libertà, prova con la sua voce a dare un contributo , tanto intellettivo quanto emozionale, attraverso la rappresentazione attenta della condizione dell'uomo in tutte le sue fragilità e contraddizioni.
 La vita è un punto/tremulo di luce/distante/un peschereccio perduto nella notte/ scrive Anna Rivelli nella poesia "La vita è un punto"  che ben esemplifica la condizione di smarrimento dell'uomo di ieri e di oggi che, attraverso la smania eccessiva del possesso coniugato a più livelli, all'alba potrà anche avere "piene le reti" ma di sicuro avrà "vuoto il cuore".
Il cammino di ogni individuo non soggiace ad alcuna logica predefinita,  è un percorso ignoto che non conosce punto di approdo perché In fondo/andare non è sperare/un porto , scrive l'autrice nella poesia dedicata a Martin Bradley.
 La precarietà di ciascuno non scaturisce soltanto da situazioni contingenti ma è la cifra distintiva dei sentimenti più puri, è un impoverimento interiore: e avrà pietà/di noi la sorte/e il fato, la regia/di questo corto/dove davvero/l'amore è un fotogramma, scrive nel componimento "L'amore è un fotogramma".
 Dietro l'apparente pessimismo che pure trapela in alcune poesie, c'è, tuttavia, in ogni manifestazione artistica, la volontà di reagire, di porre un freno a un inesorabile scivolamento nel "buio" mettendosi in discussione, ponendosi delle domande alle quali pare non esserci una risposta, ma che in ogni caso sono utili a riprendere il contatto con la realtà, a risvegliare gli animi dall'indifferenza e dallo straniamento: Di fronte al tuo morire/ognuno ha sedici anni./Ma sedici anni in più, scrive nella poesia "A.....".
 È questo il senso dell'intera silloge,  raggiungere il lettore e smuovere le coscienze, far sentire la propria voce attraverso un libro maneggevole e tascabile, piccolo ma ricco di spunti, prezioso sotto vari punti di vista. Il libro sarà presentato in anteprima il 3 maggio a Tramutola per iniziativa del Circolo Culturale Silvio Spaventa Filippi e del Circolo Vincenzo Ferroni. 


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Prefazione alla silloge poetica "La voce che scompone il buio"

            di Santino G. Bonsera





Seguo l’attività letteraria di Anna R.G.Rivelli da molti anni, lungo i quali ella è venuta svolgendo una produzione articolata che si è spartita in versanti diversi della scrittura, dalla critica d’arte al giornalismo, dalla narrativa alla poesia, forme della sua multiforme attività letteraria coniugate in uno scambio fecondo tra pagine di generi diversi, in un processo creativo intimamente coerente.

    Agli esordi della sua attività letteraria, si muoveva nell’orbita del suo docente di storia dell’arte, Luigi Kalby, col quale discusse la tesi di laurea sulla scultura lignea in Basilicata dal XII al XIX sec. Di quel primo periodo, io ricordo alcune pagine sull’arte visiva, qualcuna pubblicata sulla rivista Leukanikà, pagine che poi avrebbe riprese nel libro  L’Immanenza (2003). In questa singolare opera Rivelli non ci dà la lettura dell’opera d’arte in base alle metodologie didattiche, ma ri-crea, o meglio, re-inventa, nel senso etimologico di inventio, un nuovo esemplare che con l’archetipo ha un rapporto soltanto genetico.

    Questo libro   nasce dalla suggestione di una idea michelangiolesca, secondo cui il compito dell’artista è quello di liberare la statua, che è già in potenza nel blocco di marmo. Idea aristotelica, che la Rivelli trasforma nella socratica maieutica di “tirare fuori”, far nascere dall’opera d’arte “una nuova forma di vita”, che si anima nell’abbandono onirico della fantasia. E mi sembra di poter capire che per Rivelli l’ emozione estetica originata da un’opera diventa una forza dinamica che agisce a livello dell’inconscio, liberando immagini che non hanno più  un rapporto diretto con l’esemplare artistico contemplato,  ma con gli intimi suoi grovigli esistenziali.

    Ma Rivelli è soprattutto una poetessa,  e lo è anche quando scrive in prosa per la spiccata tendenza a risolvere  in immagini i contenuti del pensiero. La sua prima raccolta di poesie pubblicata  con il titolo Irriverenti geometrie risale al lontano 1992, cui seguiranno altre tre sillogi, l’ultima delle quali,  Se il resto tace,  del 2002. Da allora i suoi nteressi letterari si sono ampliati al giornalismo e, soprattutto, alla narrativa, nella quale è esplosa con un bellissimo romanzo, Il ragno, prontamente apprezzato dalla giuria per la “Narrativa” del Premio Letterario Basilicata, che assegnando una menzione speciale, scriveva: “Il ragno è un romanzo che consente di aggiungere ai molti nomi che hanno connotato al femminile la narrativa italiana di oggi, quello di questa scrittrice lucana”.

    Dopo dodici anni dall’ultima raccolta poetica, Anna Rivelli ritorna in Parnaso con una silloge, che ora finalmente si è decisa di affidare ai torchi. Trascelgo dal mazzetto la poesia La voce che scompone il buio, che non a caso è anche il titolo di una recentissima mostra di Giovanni Cafarelli, circostanza interessante per la stretta relazione che qui si viene a stabilire tra la poesia e la pittura, non soltanto per la coincidenza del titolo, ma anche per il contenuto concettuale. Non sapremo mai – nemmeno loro probabilmente sarebbero in grado di dirlo, per quell’intimo sodalizio spirituale e artistico che li lega - quanto della poesia è stato trasfuso nei quadri, e viceversa, ma è indubitabile che La voce che scompone il buio si avvale di scambi delle diverse forme di creatività, in cui da tempo si cimenta vittoriosamente Anna.



La voce che scompone il buio/ nel chitone di pietra esterrefatto/                                        di scale e avemaria,/ laddove il nulla è un angolo appoggiato/                                        al parapetto nudo del sagrato…/s’arrampicava/ all’anima imbronciata/ nel punto in cui la sera/ cadeva a piombo come una moneta/  e si faceva oblio.



    Con il titolo siamo già nel problema della lingua poetica di Anna; la quale possiede una rara capacità di creare immagini attraverso l’accostamento inusitato di parole che, componendosi, si arricchiscono di un significato ulteriore.

 Così, ne La voce che scompone il buio, l’associazione della sfera uditiva con la sensazione visiva opera la trasfigurazione delle forme sensoriali, per cui il buio, messo in rapporto con la voce,  è il silenzio assoluto, cioè il nulla, da cui si irraggia una complessità di immagini. In tal modo  il sintagma assume un significato più ampio, più profondo, e le parole stesse si caricano di un surplus di forza che travalica il significato denotativo per attingere verità nascoste e svelare i segreti rapporti tra le cose. Ma qual è questa voce che ha il potere di dissolvere le tenebre, vincere il nulla? Fino a prova contraria, la voce non ha mai dissolto il buio. Questo è vero, come appare incontrovertibile nella comune esperienza; ma è anche vero che nei primi istanti della creazione la voce di Dio dissolve le tenebre creando la luce; l’artista, per dirla con Konrad Fiedler, nell’atto artistico ripete il fiat di Dio , creando il mondo in una nuova forma sub specie lucis. La quale forma non ripete la realtà, ma ne svela il senso, il significato nascosto oltre la materia opaca del reale attraverso i simboli.

 Quella voce è dunque l’arte nella sua accezione più ampia e omnicomprensiva delle diverse forme creative, l’arte e la poesia che sono all’origine del processo storico dell’uscita dell’umanità dallo stato di ferinità. Veramente, l’arte, cui si riferisce la Rivelli, è l’arte visiva, come si capisce dai quadri attraverso i quali la poetessa ripercorre il processo artistico e i connessi valori e significazioni che assumono nelle varie epoche, dall’antichità, richiamata dal chitone delle statue che ornano i templi pagani, al Medioevo, la cui arte è essenzialmente arta sacra, sino all’esperienza tragica  del Novecento, rappresentato dal buio della notte al culmine dell’oscurità, che allude al nulla.  Coinvolta emotivamente nel silenzio dell’oblio, la poetessa vorrebbe opporre il suono della poesia e violare il signum arpocraticum  per squarciare quel silenzio sacrale e dissolversi e diventare parte del nulla.



E anch’io/ avrei voluto voce di torrente/ per distrarre le dita del silenzio/ …/ perché il mio volo/ fosse nulla tra

La dualità luce-buio, metafora di straordinaria ricchezza semantica, allude non  tanto alla doppia faccia della realtà, il positivo e il  negativo, secondo il senso proprio che ha nell’origine gnostica e manichea, ma alla coincidenza di concreto-astratto,  finito e infinito, cioè il nulla.

    Domina, in realtà, nella poesia di Rivelli un pessimismo che non concede alcuna speranza di un oltre come luogo di persistenza in aeternum, posizione che è ribadita nella poesia dal titolo oraziano Scire nefas: dove ritorna il sentimento del tempo, del quale sfuggono all’uomo il significato del suo inesorabile rotolare, il senso della vita, la sua durata e il doloroso tributo, ignobile balzello, che l’uomo paga per la colpa di esserci in un mondo che non è fatto, quale segno di privilegio, solo per lui. Ma all’uomo è negato il diritto di sapere, ripete la poetessa con Orazio.



Sotto i miei occhi/ che non sanno il tempo/ che senso/ che misura/che ignobile balzello/ a questa vita/ che non è sola/ nell’universo



    Attenta ai fatti che segnano la nostra epoca, alla Rivelli, pur non interessata all’aspetto religioso, le dimissioni di papa Benedetto XVI appaiono come un fatto storico così fragorosamente sconcertante (commiato … sparato nella storia), preannunzio della fine di due millenni di storia, che si estinguono ormai per consunzione (commiato esangue). La poesia, 28 febbraio 2013, prende titolo dalla data delle dimissioni del papa, quasi a voler sottolineare l’eccezionalità dell’evento nel calendario della Storia.



Come commiato esangue/ di mille anni/ sparato è nella storia/ il no di Benedetto.



Il no di Benedetto diventa anche un motivo polemico nei confronti

della dottrina della Chiesa, secondo cui l’elezione del papa di svolge sotto l’assistenza dello Spirito Santo (che “vaga smarrito”, dice la poetessa con  dissacrante ironia per negare l’esistenza stessa di Dio),  ma è anche pretesto per affermare il suo agnosticismo religioso e la negazione della trascendenza risolvendosi il pensiero del  nulla in una specie di immanenza.



   …uno smarrito/ Spirito che vaga/ lungo il cammino incongruo/ del bestemmiato Cristo di quest’era

    Anna nutre  un grande  amore per la sua terra e  per il Sud, da cui non ha voluto emigrare, ritenendo un tradimento abbandonarla per la ricerca di star meglio e dissanguarla delle energie migliori, rappresentate dagli intellettuali.

   È il motivo che svolge nella poesia Le tue finestre a Settentrione  dedicata al poeta calabrese Giovanni Chiellino,vissuto per lo più a Torino,  in cui immagina che il poeta, per un moto di nostalgia, col pensiero ritorni alla sua Calabria e alla cultura greca, creatrice delle forme più alte della civiltà: la filosofia, la tragedia, l’epica omerica e quella latina, che Anna evoca attraverso interrogazioni e nomi

… laddove  trascolora/ crivellata/ da un punto di domanda./ Chi sei tu?/ Chi io?/ E chi la cerva Ifigenia,/ Didone la regina?/ Quale la posta/ al gioco di Nessuno,/ cosa la vita?



Questa ricchezza culturale e spirituale che il Sud si porta in eredità intangibile della sua tre volte millenaria civiltà, frutto di combinazione di incontri, di incroci (“un chiasmo”) o di un dono (“lemma”) o disposizione naturale che ci sintonizza con l’armonia del mondo “diapason”, polemicamente la poetessa la oppone alla aridità umana del Nord ricco sì e superbo di benessere, ma di umanità povera.

Nel traffico degli astri/ persino mute le armonie celesti/ alzano acre la polvere del tempo/ ed è spavento madido/ l’ambrosia del silenzio

Quell’inusitato “traffico degli astri” è locuzione di grande efficacia ed effetto con i rimandi letterari alla muta armonia celeste e  all’ambrosia del silenzio, versi che riprendono il motivo polemico Dei Sepolcri contro la società lombarda del Settecento, anche allora dominata dalla smania di accumulare ricchezza e spregiatrice dei valori della poesia, che “vince di mille secoli il silenzio”. Una società che limita il suo orizzonte all’oggi e consuma tutte le possibilità di vita nel presente, sembra dire la poetessa, non lascia di sé alcun ricordo e perciò ha orrore della morte. Per questo proclama orgogliosamente

         Ma i poeti nascono al Sud.

    Lo stesso motivo ritorna nella poesia Ma qui in cui Rivelli sembra riprendere una polemica antieuropea che si va affermando in larghi strati della società, che addebita – e non a torto  - alla politica economica dell’Unione Europea la causa della crisi che attanaglia in particolare il Sud d’Italia, che continua a dissanguarsi delle forze dei giovani, i quali, appena laureati o diplomati, fuggono al Nord o all’estero, dimentichi del tacito giuramento di non abbandonare la propria terra, questo Sud carico di storia e di memorie e  dove ancora si coltivano i valori dello spirito 



Ma qui / … /…il cielo/ ha il cuore/ e la memoria in pugno/                     l’Europa/  è un buco nero che c’inghiotte/ i figli/ e le speranze lente/  sui treni di settembre

  

 Rivelli, come accennato, si è fatta testimone e cantore delle grandi tragedie del nostro tempo, dalla strage dei bambini a Beslan, dove si è sparso il sangue innocente di 196 ragazzi, a quella di Nassirya, dai naufragi di migranti nel Mediterraneo alla lotta dei Palestinesi per rivendicare il diritto ad avere una patria.

    Durissime realtà, che la Rivelli filtra attraverso un linguaggio surreale capace di assorbire la crudezza degli eventi, risolvendo il compianto in elegia. Così nella poesia A Beslan



I bambini a Beslan/ hanno fragili ali/ e corazze robuste di fiamme/ …/ hanno il sonno/ dei fiori inodori/ dei ceri già spenti./ Madri e padri a Beslan/ sono cocci di vetro/ sopra il muro/ a difesa del campo/ un risucchio nel vuoto profondo/ e il delitto/ di restare al mondo



   Da notare in questa poesia il registro linguistico ricercato quando il discorso è sui bambini, la cui immagine viene ricomposta non nella realtà di esserini straziati dalle bombe e dalle sventagliate dei mitra, ma nel placido sonno della morte, evocato da termini come fiori inodori, ceri spenti; mentre per  rappresentare la condizione morale e psicologica dei  genitori, la poetessa usa  un lessico comune che, anche attraverso i suoni aspri e forti, oltre che con il valore semantico, mette in evidenza la riduzione della loro esistenza a una realtà devitalizzata, frantumata e senza centro. Rivelli si è misurata, come accennato, con  i fatti più clamorosi (e scandalosi) della storia contemporanea, con la sua sensibilità di donna e di poetessa; e tra questi fatti certamente quello che ha più tenuto desta l’attenzione popolare  è il fenomeno delle grandi migrazioni dal Sud verso l’Italia e l’Europa, con le tante tragedie del mare.



E mi piace proporre su questo tema non una poesia, ma un testo in prosa, che Anna ha dettato nella immediatezza del naufragio a Lampedusa. È una prosa che potrebbe essere facilmente riportata a misura metrica, sia per la scelta stilistica, orientata verso un linguaggio surreale, di cui si è fatto cenno, sia per il ritmo e l’intonazione. Lampedusa,  il titolo del breve testo, è una prosa poetica.

    Non sono corpi galleggianti esanimi, ma scarpe a rendere lo spettacolo triste e desolante del naufragio di qualche centinaia di persone. Le scarpe, simbolo del lungo e penoso viaggio tragicamente interrotto, sono al posto degli uomini, di cui si ignora il nome e quindi inesistenti; eppure erano uomini che tentavano disperatamente di raggiungere quella spiaggia, frammento di Africa e d’Europa lambito dal mare che in ogni tempo è stato  luogo di incontri di popoli sin  dalle antiche civiltà, ed oggi, sembra dire la nostra scrittrice, è diventato luogo di divieto e di morte. Ma sarà una illusione pensare di poter fermare con leggi e sanzioni le masse di perseguitati o di disperati fuggenti dalla guerra e dall’oppressione, perché nell’uomo vi è una invincibile aspirazione alla felicità e alla libertà.

    L’insistenza con la quale Rivelli nomina le scarpe, sottolinea la tragedia nella tragedia: testimonianza dell’esistenza di uomini in fuga verso la terra promessa mai raggiunta, sono rimaste le scarpe, cioè, in parole povere, una cosa vile, insignificante, senza valore; chi le portava non è mai esistito perché inabissandosi ha portato con sé il suo nome. Uomini che sono passati sulla faccia della terra, la cui ultima azione è stata quella di tentare di conquistare una possibilità di vita più degna, non lasciano traccia della loro esistenza, perché non possono essere nominati, evocati nella loro individualità.

    Un giorno sarà necessario aprire una finestra anche sull’impegno di “giornalista” del Quotidiano, un impegno nel quale Rivelli porta tutta la verve polemica di uno spirito risentito per le cose del mondo che, secondo lei, non vanno, o che vorrebbe che andassero diversamente da come vanno. Raccolti  e pubblicati,  i suoi contributi avrebbero un valore documentario utile.

    Mi rendo conto che queste mie note non sono la classica presentazione di un libro di poesia, ma io non intendevo scrivere una “presentazione”, per la quale sarebbe stato necessario attivare ben altra strumentazione, bensì trascrivere una mia lettura delle poesie, e in questo ambito vorrei che fosse considerato il mio esercizio. Peraltro,penso che  chi s’arroga il diritto di parlare di un libro, anziché parlare fumosamente in generale sulla poesia, sulle poetiche e discettare su che cos’è la poesia e altre amenità del genere, ha il dovere di stare umilmente addosso alla pagina, in questa caso alla poesia.

    Ho ritenuto perciò di soffermarmi su un gruppo di poesie che mi sembravano emblematiche e quindi esemplificative della lingua poetica di Anna R.G. Rivelli, una lingua che in prima battuta potrebbe mettere a disagio il lettore ingenuo, un disagio dovuto al fatto che la poetessa spesso si muove  in atmosfere surreali, per cui sfuggono, nella immediatezza, i reconditi significati allusi dagli accostamenti di immagini inconsueti, e cogliere i sottili passaggi dalla reminescenza letteraria o dotta alla attualizzazione dell’immagine.

    Rivelli, infatti, è dotata di una straordinaria immaginativa visionaria, che è all’origine del suo modo di fondere immagine e senso delle parole, che vengono straniate dalle loro proprietà semantiche, secondo la tecnica allusiva. E questa mi sembra la cifra della sua lingua poetica.

    Alla fine, però, devo confessare di temere di non aver corrisposto alla fiducia riposta in me generosamente da Anna Rivelli. A mia scusante potrei dire che un lettore di poesia è condizionato anche dal rapporto che instaura, di volta in volta,con i testi; e le sollecitazioni che ho ricevuto dalle poesie, di cui sono ancora caldo,mi hanno fatto preferire questo tipo di lettura.

    Sic cogitavi et scripsi.


  kkkkk


Presentazione  del romanzo di Anna Rivelli “Il ragno” 
( Pantano di Pignola, 11 maggio 2012)


di Claudia Romano




Desidero anche io, come le mie colleghe, ringraziare l’associazione che ci ospita nelle persone della sua presidente e dell’amica e collega Angela, ringraziarle soprattutto per l’opportunità che ci hanno offerto di soffermarci e di riflettere su una storia coinvolgente ed emozionante.
La cosa che più mi ha colpito di questa storia è l’alchimia, la chimica dei personaggi, il loro modo di interagire, fra di loro e all’interno dei luoghi che li contengono e che contengono le loro vite, un modo duro, aspro, fatto di gesti repressi, di parole urlate ma anche di silenzi carichi di ostilità, irriguardosi, quasi. L’equilibrio fra i personaggi sin dall’inizio si basa sostanzialmente su un rapporto di forze contrastanti fra il ragno, il protagonista maschile, il padre sordamente autoritario, fintamente perbene, e la sua preda, la madre di Virginia, la protagonista della vicenda. La madre è la figura che, come dice l’autrice, assurge allo stato di icona, “l’icona per quell’impegno preso con se stesso (da parte del padre, ovviamente) di dover duplicare il suo capolavoro anche con la figlia”. La madre, una donna sfinita, sfiorita anzi tempo, non oppone alcuna resistenza a suo marito, si lascia supinamente avvolgere dalla sua ragnatela e, a sua volta, diventa ella stessa il punto di partenza per una nuova ragnatela, sostiene il ragno nella sua lenta, costante, graduale ma inesorabile operazione soffocante.
Se il padre è il ragno e la madre è la preda, Virginia è la vittima designata, la vergine sacrificale, come suggerisce il suo nome, che solo sulla spinta di un sentimento forte, che giungerà dalle misteriose profondità del tempo, riuscirà a sollevare il capo. Virginia con la forza della disperazione, col coraggio che proviene dal timore più profondo, più atavico, quello cioè di deludere chi ci ha generati, deciderà di ribellarsi al suo destino, al destino di essere il secondo, più perfetto, più completo capolavoro del padre-ragno. E si allontanerà, taglierà definitivamente questo cordone ombelicale, si affrancherà da un luogo soffocante che ospita persone soffocanti, tutte inconsapevolmente sprofondate in un baratro emotivo. Ma quanto inconsapevolmente, mi chiedo, e me lo chiedo soprattutto pensando alla madre, interrogandomi sul perché in nessun momento della vicenda, nonostante tutto, nonostante si sia piegata a tutto per il suo marito quasi padrone, neanche per una volta lei riesca a ritrovare dentro di sé quella natura femminile accogliente, tiepida, che rende ogni donna una madre, un luogo, una terra che accoglie e che consola.
Gli uomini, tutti gli uomini della vicenda, o quasi, appaiono problematici, rappresentano tutti figure negative; leggendo il libro li incontrerete, sarete in grado, come è accaduto a me, di coglierne in un attimo il valore negativo, escludente, sostanzialmente perdente. Vi imbatterete, oltre che nel padre, anche nel fratello di Virginia, nel datore di lavoro, nel collega, nello pseudo - fidanzato. Ognuno di loro vi apparirà chiuso in un mondo che esclude gli altri, che esclude il mondo circostante, che innalza barriere, che rimane sordo e insensibile ai bisogni altrui, ai bisogni e ai sogni soprattutto delle donne della storia. E ad un certo punto poi, se farete attenzione, molta attenzione alle piccole cose, ai dettagli, incontrerete una figura piccola, marginale, Carlo, che fa il panettiere, un mestiere che consiste nel produrre del cibo, delle cose buone da mangiare. Carlo fa un’attività direi femminile, quella semplice e profonda del fare da mangiare. Fa delle cose buone, calde e dolci che ristorano, che rallegrano le pause del lavoro, che saziano l’appetito del corpo, dandogli sostegno. Durante quelle pause leggere, vuote di impegni e quasi vuote di pensieri e di affanni, il tempo scivola veloce e facile. Per Virginia quelle pause sono un sorso di aria fresca e leggera, un boccone di serenità.
E poi incontrerete Poldo, ha un nome che fa sorridere, che fa tornare bambini, un nome rotondo e anche lui lo è: è un peluche, morbido, un po’ arruffato, un cane di pezza di razza indefinibile, il simbolo di una fanciullezza e di una spensieratezza forse mai vissute da Virginia, schiacciate da un presente fatto di dispiaceri, che mai però riescono ad assopire del tutto l’ironia della protagonista, il suo desiderio di leggere la realtà, la sua realtà interiore, con un occhio attento a cogliere il senso della sua vita, in modo se non proprio positivo, quanto meno energico.
Ed è in questo modo, con l’energia, sorretta dall’ironia e dal desiderio vivo e vibrante di aspettarsi qualcosa di diverso, che Virginia procederà nel suo percorso di vita, che la porterà ad accogliere l’inaspettato, ad accettare l’inaccettabile, a dare il giusto peso all’imponderabile.



kkkkk

Elementi narrativi ne "il Ragno" 
(presentazione Potenza, 26 marzo 2011 )
             
di Francesco Saverio Lioi


Già altre volte  ho avuto l’onore di presentare  opere letterarie di Anna Rivelli. Allora si è trattato di poesia, abbiamo presentato infatti le sillogi poetiche: Rosso stillante, Se il resto tace. Fu allora un piacere, (la poesia di Anna scaturisce sempre da un profondo sentire le emozioni della vita),   è un onore oggi parlare di un’opera narrativa complessa della quale è necessaria dare una lettura che vada al di là della semplice fabula narrativa. Quando si ha fra le mani uno scritto di Anna Rivelli si è sicuri di leggere uno scritto fluido, ben organizzato con un sapiente uso della lingua italiana. La vicenda accattivante, la scorrevolezza di dialoghi, la piacevolezza della scrittura sono elementi che facilitano un discorso critico letterario su un’opera che dona una lettura che nella narrativa moderna non capita spesso. Il limpido, fluido uso della lingua è frutto anche di una linearità del tessuto narrativo del romanzo, ma anche di un diuturno contatto con la migliore narrativa italiana, quella narrativa che fa parte della categoria dei classici. La scrittura di Anna Rivelli esce dai canoni commerciali e dal linguaggio singhiozzante quale spesso si trova in tanta narrativa di oggi. 
  L’opera letteraria narrativa è frutto di due fattori determinanti: l’autore e l’ambiente che vuole ritrarre; va inserita nella realtà culturale e nella esperienza del proprio tempo, avvertita e sperimentata in tutte le sue dimensioni per riflettere globalmente l’ambiente che la produce. L’ambientazione di un’opera narrativa può essere storica, se è inserita in un periodo storico, anche lontano nel tempo, o contemporanea allo scrittore, il quale può ritrarre, ricreando, la vita che gli accade intorno. Partendo dal vero, lo scrittore può ricostruire un portato narrativo che guarda i personaggi scomponendoli psicanalisticamente e facendoli agire in situazioni create dalla propria fantasia ma rispecchiando il verosimile della vita. La vita che lo scrittore conduce, il suo portato culturale, le sue esperienze difficilmente rimangono estranee all’opera letteraria. Da tutto questo l’estro narrativo, che è ciò che crea l’opera d’arte, non è mai staccato.   Chi scrive  rivolge la sua attenzione prima a se stesso, alla sua cultura,  poi agli ambienti culturali che frequenta, al dialogo intrattenuto con le esperienze culturali del tempo, con le poetiche generali che in quel periodo istradano le produzioni letterarie e con la sua personale poetica, poi dà impulso alla sua fantasia per creare la fabula che darà vita alla storia che si vuol narrare.
Il narrato può essere storico, sociale, psicologico, d’ambientazione la più varia, elemento essenziale dell’opera letteraria, del romanzo in particolare, è una storia vissuta da qualcuno, da uno o più personaggi che si muovono nel contesto narrativo. Costoro sono i protagonisti della storia, ma dietro questi vi sono altri due elementi essenziali: l’autore della storia e il lettore.
Tra autore e lettore deve sempre crearsi un rapporto di interdipendenza, perché se riflettiamo sulla etimologia dei due termini, l’autore, dal lat. Augeo, nel senso di aumentare, deve accrescere sempre l’interesse sulla sua opera per essere scelto dal lettore, che deriva dal lat. Lego, che ha come significato fondamentale quello di scegliere, e solo come traslato quello di scegliere con lo sguardo e quindi leggere. L’autore deve, quindi, aumentare la curiosità, l’ interesse del lettore per essere scelto e letto. È stato sempre così, è stato Aristotele che nella sua Poetica ci ha offerto un’acuta analisi psicologica di ciò che l’autore con la sua opera deve esercitare sullo spettatore (il filosofo greco parla della tragedia) o lettore che si trova di fronte un testo narrativo.
La fabula del racconto, gli accadimenti che condizionano i personaggi della storia devono suscitare nei lettori una carica emotiva intensa che il filosofo chiama catarsi. Anna Rivelli ha costruito una fabula che può costituire un paradigma, un modello esemplare che può essere catartico per la società di oggi, tempo della storia narrata, nei rapporti genitori-figli. La fabula della Rivelli entra profondamente in contatto con un problema vitale e dibattuto nella moderna società e con il vissuto di una donna impegnata nel dibattito esistenziale col suo essere donna libera culturalmente. Fin dalle prime pagine del libro si respira un anelito di libertà, proiettato nella protagonista della storia. Tutta la prima parte del romanzo descrive la lotta che Virginia è costretta a sostenere per riscattare la sua vita di ragazza irretita dal padre che cerca di impedirle qualsiasi movimento, per essere padrona di se stessa, della sua giornata, per rivendicare il diritto di lavorare, il diritto di uscire di casa perché possa essere autonoma non solo come persona fisica, ma mentalmente, libera nei pensieri, prima che nei movimenti. Il titolo del romanzo, che ad una lettura letterale potrebbe far credere ad un libro su un animale non troppo amato, introduce il lettore in una metafora che va avanti per tutto il racconto. Il ragno è il padre egoista, autoritario, il padre padrone, esattamente come è padrone il ragno delle prede che cattura con la sua rete. Se le prede che cattura il ragno cadono incautamente nella rete, la preda che vuol catturare il ragno padre lotta con tutte le sue forze, e alla fine eluderà quella rete sottile che le è stata gettata attorno.
Questo  personaggio, o meglio tutti  i personaggi creati dalla penna della Rivelli si fanno seguire fino in fondo, fino alla fine della storia, dal trionfo del punto focale della storia, che possiamo individuare nella frase di Virginia. La porta di Casa che si chiude alle spalle è un inno alla libertà (p. 13) in poi l’interesse del lettore è in continuo aumento.
Chiusa la porta, rimangono chiusi in casa il padre tiranno, ragno che dal centro della sua tela tira i fili, e la madre, grigia e senza vita. Due personaggi squallidi che spariscono dalla storia come sparisce dalla storia della vita il modo distorto di una educazione dei figli basata sulla costrizione, sulla pretesa di costruire i figli a propria immagine e somiglianza, fuori dal tempo e dalla realtà che giornalmente si vive. La metafora del ragno, animale che non raccoglie simpatie, dal centro della sua tela crede di dominare il mondo, perché riesce ad irretire piccole prede, coglie a pieno la situazione nella quale viene a trovarsi la protagonista della storia narrata. Ed è proprio questa metafora che va letta in profondità, che tiene avvinto il lettore, il quale segue con compiacimento ed interesse le lotte della protagonista per sfuggire alla sottile rete del ragno. Virginia sfugge alla rete risolvendo il dilemma se ubbidire ai genitori e essere plasmata o spiegare le ali verso la libertà.
Non ubbidire e non essere plasmata, ma spiegare le ali: questo vuole la sua libertà di donna prima che di ragazza. È questo quanto avviene nell’Antigone di Sofocle, tragedia nella quale Antigone si trova davanti al dilemma se ubbidire ai suoi impulsi dell’animo che la spingevano a rispettare la morale naturale oppure la legge imposta da chi comanda, paragonabile anche in questo caso ad un ragno che vuole irretire tutti nella sua tela. L’eroina risolve il dilemma: rispettare la morale naturale, secondo i moti del suo animo, che la spingono verso una libertà di agire, spezzando la rete lanciata per avvolgerla. Questo è anche il dilemma di Virginia, la protagonista del nostro romanzo: ubbidire alla legge naturale che, nel rispetto delle regole, sancisce la libertà di ogni uomo o donna nell’organizzare e programmare la propria vita ed opporsi ad una assurda imposizione priva di qualsiasi norma. Antigone e Virginia scelgono la libertà: Antigone andò incontro alla morte; Virginia alla vita e alla libertà.
Dal punto di vista narratologico la nostra scrittrice, almeno apparentemente, ha spezzato il triangolo narratore autore, protagonista della storia, lettore. Essa si è nascosta dietro la protagonista, la quale non è oggetto del racconto, ma è soggetto narrante e nello stesso tempo oggetto narrato. Il racconto, infatti, è condotto in prima persona: è la protagonista Virginia che racconta se stessa, che racconta la propria lotta contro le posizioni irrazionali di un padre padrone, che ella, con una metafora ironica, paragona ad un ragno, animale che certo non gode le simpatie di alcuno. Viene fuori un racconto avvincente, una autoanalisi psicologica sconvolgente che Virginia fa su se stessa, un cercare ed immaginare di aver trovato quell’amore che non ha trovato in famiglia nelle apparizioni di quello che era stato il suo vero padre e che non aveva avuto modo o occasione di conoscere. Le difficoltà, i dissapori, il travaglio esistenziale di Virginia creano un personaggio da sogno, evanescente, senza corpo, che si materializza nell’immaginazione, un’immaginazione che va al di là del razionale, perché non si può pretendere che al mondo tutto abbia una logica, ci sono cose che non ce l’hanno e basta, eppure esistono e sono!
Un inconscio desiderio di essere amata d’un amore che tutto dona e nulla chiede, d’un amore grande quanto solo può essere quello di un padre, d’una carezza sempre vagheggiata e mai avuta, di quella tenerezza di cui è capace l’affetto di un padre, crea nella mente e nell’animo della protagonista una figura di padre esistente solo nella sua mente, che avrebbe voluto al suo fianco nei momenti difficili della vita. Lo vede nel sogno, nell’immaginazione così intensa,che vien creduta realtà. Paolo Delgado, padre non più in vita e mai conosciuto dalla protagonista della fabula, continua a vivere nell’inconscio, nei pensieri di Virginia, e prima di essere padre, è l’uomo dei suoi pensieri, l’uomo della sua vita, l’uomo che lei si è costruito fino al punto da non distinguere più l’immaginazione dalla realtà.
 Quale la chiave di lettura del romanzo? La psicanalisi, un ambiente reale di vita di una ragazza costretta a vedere le proprie aspirazioni coartate da un padre possessivo che vede nella donna ancora un oggetto, l’emancipazione della donna che fatica ad uscire dal nido? Senza dubbio queste ed altre sono le problematiche che emergono dalla lettura di questa fabula che presenta un intreccio ricco di accadimenti dai quali la protagonista si vede circondata e che provocano sconvolgenti emozioni.
Con la tecnica dell’autoraccontarsi del personaggio protagonista, l’autrice, Anna Rivelli, si eclissa, scompare, sembra quasi che si faccia condurre per mano dal racconto di Virginia, che determina i fatti.  L’autrice così è estranea alla storia, non interviene ne con riflessioni, né con descrizioni sia di personaggi che di luoghi. Questi vengono ad essere una sola cosa con il personaggio e l’autrice sembra raccogliere fatti, dialoghi e luoghi quasi scattasse istantanee e fissasse tutto sulla carta da stampare. La descrizione del terrazzino della casa che Virginia si crea nell’immaginazione è un’istantanea che suscita intense emozioni quali sono suscitate da un paesaggio immaginato: è un’istantanea fotografica creata dal racconto di chi ha vissuto intensamente quelle emozioni, e la descrizione diventa poesia:
Quel terrazzino è un cucchiaio di sereno, un boccone di spensierata innocenza (p. 117)
La presenza di Paolo, uomo evanescente, impalpabile, ombra sfuggente, eterea, lo rende un paradeisos edenico fuori di ogni logica e realtà. Virginia ha un innaturarsi simile a quello di Saffo dell’Ode sublime.
Il raccontarsi di Virginia inizia  con le riflessioni che fa sulla madre « Mia madre….» dalle quali viene fuori un ambiente gretto, una famiglia nella quale vige ancora la legge del padre padrone, secondo una concezione di vita fuori del tempo. Virginia una ragazza dinamica, che cerca  nel lavoro fuori casa il riscatto dall’oppressione familiare, non accetta passivamente la logica feroce del padre padrone che cerca di tessere intorno a lei una ragnatela per irretirla, per plagiarla nella mente e nel corpo.
Un tratto caratteristico del romanzo della Rivelli è l’uso della persona loquens, cioè il personaggio protagonista che racconta in prima persona la sua vicenda sia essa gioiosa o triste, che espone le proprie idee sui comportamenti che tengono verso di lei il padre o il fratello, sui quali esprime giudizi ironici quando li nomina dando loro dell’eccellenza per voler significare la sua prepotenza sulla madre, mosca intrappolata, dalla quale esige un rispetto riverenziale. L’artificio della persona loquens, che può essere un personaggio fittizio o anche reale della vita, conviene particolarmente a mascherare l’identità dell’autore. In questo modo la descrizione dell’ambiente familiare della protagonista è visto dal di dentro, è raccontata dai fatti e e dalle parole che da questi scaturiscono.
 Il cerchio di solitudine in cui viene a trovarsi Virginia, l’ineluttabile spirale di follia del padre, la passiva sottomissione della madre, mosca intrappolata, la protervia del fratello, la comparsa di un uomo immaginato, la scoperta di una paternità negata e perduta determinano una materia narrativa ed una scrittura esemplare consegnano al lettore una figura di donna maestosamente incisa dentro il silenzio della storia, eroina e vittima sacrificale di quella concezione di vita che ha visto la donna come un essere senz’anima, come la vedevano gli antichi filosofi greci, senza capacità di intendere e di volere.
Un paio d’anni fa ebbi l’onore di presentare un altro romanzo che aveva come linea portante la condizione della donna: La donna d’angolo di Francesca Sassano. Ambienti diversi, situazioni diverse, civiltà diverse, ma un solo problema: le difficoltà d’essere donna. Non è possibile in questa sede fare un discorso in parallelo, ma in tutti e due i romanzi vi è il riscatto della donna che trionfa nel suo essere donna, portatrice di quel sentimento che si chiama amore.
La fabula del romanzo della Rivelli è frutto di fantasia, il problema che solleva, però, è reale, antico, un problema antico quanto il mondo, riguarda il mondo occidentale e il mondo orientale: il nostro mondo, che definiamo civile e che ancora dibatte i problemi della donna. L’emancipazione della donna deve ancora fare molta strada. Ha visto dibattiti parlamentari, il Parlamento Italiano ha approvato importanti leggi. Le tappe più importanti della parità uomo – donna sono state:
1 – alla fine della prima guerra mondiale la donna ottenne l’abolizione dell’autorizzazione maritale e l’ammissione ai pubblici uffici con l’esclusione della Magistratura;
2 – nel secondo dopoguerra la donna ottenne il diritto di voto attivo e passivo; la Costituzione del 48 sancì la parificazione formale con l’uomo, anche se saranno necessarie leggi successive per rendere sostanzialmente efficace il principio generale.
Ma non basta la legge a porre la donna sullo stesso piano dell’uomo, non basta la Costituzione della Repubblica che stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale senza distinzione di sesso; quello che occorre cambiare è la testa degli uomini, i quali soggiacciono alla trama sottile ed inconscia di antichi timori, di secolari tradizioni, di radicati pregiudizi. Lo dimostra la fabula del romanzo
 di Anna Rivelli. Un uomo, padre padrone, tira sempre in ballo la sua presunta superiorità dell’essere maschio, pervasa di misoginia. Il racconto della Rivelli è senza dubbio acronico per le problematiche che presenta, possiede un’acronia che spazia dalla realtà all’immaginazione, alla finzione, che ha permesso alla scrittrice di plasmare una storia leggera, suggestiva, accattivante. La finzione tinge di poesia leggera i fatti raccontati. Ogni frase, ogni parola quando portano nel racconto la finzione diventano poesia che dà al racconto uno straniamento dalla realtà che appare in una prospettiva diversa da una comune percezione. Virginia parte dal racconto della vita reale, vissuta, dalle difficoltà che giornalmente deve superare per rifugiarsi in un mondo metareale, in una finzione nella quale vive  quella vita di libertà sempre sognata, vive quell’amore che solo un padre può dare, quel padre che lei immagina quale sarebbe potuto essere per lei, figlia inseguita per tutta la vita e mai raggiunta. L’immagine di quest’uomo, che vive nella finzione di Virginia, è eterea, evanescente, un’ombra che diventa materia impalpabile. Il dialogo sul terrazzo di casa durante la messa a dimora delle piantine sembra reale, con un uomo in carne e ossa, racconta Virginia : Lo guardo, ma è come se non lo vedessi, come se il suo corpo venisse fuori dai suoi gesti, oppure Si lascia inghiottire liquido dalla scala come un sorso freschissimo in un caldo d’estate. Paolo è senza un volto che io riesca a ricordare, senza mani che mi abbiano sfiorato. Io mi ritrovo coperta come se la trapunta leggera fosse stata rimboccata, dall’altra parte del letto è stato rifatto…Paolo non c’è.
Quell’immagine paterna, dagli occhi castani, più o meno dello stesso tono dei miei, si materializza nella finzione, ma rimane dolce fantasma quando la realtà si staglia davanti con tutta la sua tragicità che fa dire alla persona narrante, a Virginia cioè:
 Lo schiaffo e i pugni mi bruciano nell’anima. Sono gli schiaffi e i pugni di quel padre ragno che spingono la ragazza a crearsi una felicità in un mondo acronico, metareale. Un mondo creato dalla sua immaginazione, dai suoi sogni, dal suo desiderio di ricevere una carezza che le era stata negata dalla vita.


kkkkk



Prefazione  per "L'immanenza"

       di Rocco Brancati

Penso all'"Adamo caduto" di padre Serafino della Salandra. Ascolto le parole di un Dio che soffre:
            ...Ah, che pur troppo t'amo,
            Troppo ti stimo, e spregio,
            Adam,delitia mia,
            Adam riposo de le mie fatiche.
             Che farò dunque? haverò tanto core
            D'ambiduo discacciarti?
            Potrò soffrirlo?
Vedo una donna trasformarsi in una statua di marmo e vagare sulle strade del mondo; scorgo un volto  femminile, Hodighitria (Colei che indica la via),  conteso tra salvezza e disperazione, spirito peregrino come la "Gatta cenerentola" di Giovanbattista Basile.
Il suo silenzio è infranto da un certo "ulissismo" con quel tanto di eroico e di spirituale proprio della Deisis ( la Vergine orante). Ma, in mezzo al colonnato di San Pietro, c'è ancora Juan Caramuel pronto a bastonare quanti hanno dimenticato il fascino di un mondo dove l'arte riusciva a farsi spazio nel cuore degli uomini divenendo essa stessa preghiera.
Tormentata dall'aegritudo e dall'accidia "funesta quaedam pestis animi" ecco che la statua Glycofilousa (Madonna della tenerezza) si trasforma in un guerriero circondato da nemici crudeli e macchine da guerra; solo e senza scampo, non gli resta che la pena infinita della sconfitta.
Quando il pensiero ritorna pietoso, le parole non possono essere udite e comprese perchè tremanti e fioche; solo Cristo o la morte potrebbero liberarci. La fenice o il basilisco torneranno a risorgere dalle proprie ceneri ma l'eternità è lontana e il mondo diventa elegia e compianto per anime sole.
Che cos'è dunque questo viaggio di Anna Rivelli? Una semplice metafora o addirittura l'allegoria di un itinerario interiore tormentoso e necessario, di una guerra mossa a se stessa con le armi della ragione e della fede? E' la meta di una leggenda o piuttosto sono pagine di una lettera a Dionisio che sfuggono ad una interpretazione unilaterale?
In "L'immanenza" Anna Rivelli, da viaggiatrice colta, prima di partire legge Virgilio; si accompagna con i geni ora malinconici e pazzi altri loquaci ed entusiasti: uno solo non basterebbe e sarebbe insopportabile. Alla fine la scelta cade su un compagno-ombra, uomo dolcissimo e lieto, silenzioso, testimone prezioso per un itinerario memorabile. Come in una fiaba gotica o in un romanzo di formazione settecentesco, incontrano un canuto pastore che li esorta a rinunciare all'impresa; e supplica, addirittura li atterrisce con racconti di solitudini inaccessibili.
"Ex prohibitione cupiditas": ecco allora che gli elementi narrativi e poetici si scaricano in forma di lampi. Il viaggio è cominciato, il pensiero è rapidissimo, in un batter d'occhio ci conduce ad una meta prima che ce ne accorgiamo.

      Rocco Brancati (2003)


kkkkk



da "Il Quotidiano della Basilicata" del 30 marzo 2004



                                                                                     




     da "La Gazzetta del Mezzogiorno"
del 27 febbraio 2004









                                                                              da "il Quotidiano della Basilicata" del 26 febbraio 2004






da "La Nuova Basilicata" del 25 febbraio2004







da "La Nuova Basilicata" del 1 ottobre 2003









               
da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 30 luglio 2003






da "Lucanianet" del 22 giugno 2002








da "Il Quotidiano della Basilicata" del 25 giugno 2002























































(Prefazione di Francesco Saverio LIoi per il volume di poesie "Se il resto tace")

Dopo una prima, veloce lettura mi sono venute in mente le parole di un linguista francese, Antoine Meillet: “I poeti sono da un lato obbligati a conformarsi in una certa misura all’uso corrente per essere capiti, ma dall’altro lato devono scostarsene, perché la loro lingua si distingua da quella dell’uso corrente: essi si rivolgono a un pubblico preparato a comprendere questa lingua speciale, ma anche rassegnato ad ammirare ciò che non riesce a capire”.
Il Meillet è uno storico della lingua greca e vuole delineare la lingua speciale della poesia greca. Noi possiamo fare la stessa osservazione sui testi della Rivelli, che certo non sono di facile intendimento. La poesia della Rivelli parte da lontano, essa possiede una stratificazione culturale solida, ha come sottofondo la tecnica dell’arte allusiva che rimanda il lettore da un poeta all’altro, da Catullo ad Orazio, da Leopardi a Montale, agli ermetici. Cogliere questo filo di Arianna non è facile: solo un orecchio affinato e un gusto poetico ipersensibile riescono a collegare ciò che lega i capi del filo; il poeta che è alla base e la trasformazione della Rivelli, la quale ha fatto sua l’immagine del poeta che fa da sottofondo. Così troviamo nell’immaginario poetico della Rivelli echi leopardiani, ungarettiani, montaliani, catulliani, oraziani. La tecnica della poesia allusiva sottende una raffinata cultura letteraria che produce una poesia dotta, per intenditori, che sanno cogliere i sottili passaggi dalla riminiscenza dotta all’attualizzazione e personalizzazione dell’immagine poetica. Così la Rivelli con la sua poesia accresce la vitalità dell’immagine antica, perché in ogni epoca la poesia non può essere coeva e vera se non è contemporanea al sentimento di chi la scrive e la sente. Uno degli elementi di contemporaneità della poesia è senza dubbio il linguaggio che è mezzo di espressione della vita realisticamente intesa. Nel nostro caso il linguaggio scarno, la parola essenziale sembra tanto svolgere una funzione apotropaica, vuole con esso l’autrice scacciare da sé quel fumentus veternus sempre alluso alla dicotomia luce-buio, che rappresenta la doppia faccia della realtà come si può vedere in molti frammenti.
Spesso la poesia come quella della Rivelli non consuma nemmeno la lingua d’uso, ma è caratterizzata dallo straniamento della lingua rispetto alla norma d’uso, in quanto la straordinarietà rende la lingua poetica molto spesso criptica quasi che il poeta voglia tenere per sé le intuizioni poetiche. Questo è dato da parole dotte e dall’uso di figure retoriche. La poesia di Anna Rivelli non dà al linguaggio una forma diacronicamente elaborata, ma lo strania dalle sue proprietà semantiche.
Tutti i testi della Rivelli sono una meditazione sulla vita, meditazione costituita da un discorso spezzato e interrotto, da un linguaggio tormentato ed impervio. In tutti i frammenti lirici vi è un espressionismo, una cifra stilistica che avvicina la poesia della Rivelli a tanta parte della poesia del ‘900.
Francesco Saverio Lioi (2002)





da"La Gazzetta del Mezzogiorno" luglio 2000

































Prefazione di Luciano Luisi per il volume di poesie "Rosso stillante")

Dopo sette anni da una piccola silloge d’esordio (“Irriverenti geometrie” del 1992), arricchita da varie esperienze di scrittura  creativa e saggistica, Anna R.G. Rivelli torna alla poesia con una raccolta più densa che meglio ne definisce la fisionomia e più compiutamente la rivela. Ed è davvero sorprendente constatare con quale immediatezza i suoi versi (ben al di là di quanto ogni   poesia  sia sempre biografia e confessione) ci conducano senza cortine protettive, ma anzi con l’innocenza della verità, nei meandri del suo spirito, aperto incondizionatmente alla vita, pronto a  confrontarsi con il suo mistero. Ed è un confronto che, nonostante  la “gioia” che la vita in se stessa le dà (la gioia dell’esistere), qualche volta le fa piegare la testa, stremata. Ma è solo il prezzo, il minimo prezzo del vivere perché nonostante dica nella poesia di chiusura del suo primo libretto “Io che non sono torre / che non crolla” e “precario ho l’equilibrio”, ora, sette anni dopo (tanti, dunque, per la sua ancor giovane età) in questo “Rosso stillante”,   con una più consapevole capacità di guidare la vita e accettarla così com’è (sembrandole persino ingiusto giudicarla) per ben due volte la sua visione concretamente positiva fa appello al sole, simbolo fin troppo esplicito: “ìl sole / trafiggerà / le tenebre più nere”, e altrove: “ma sul mio nero / esplode il sole / si spalanca il  cielo”.
Cè dunque come un sentimento di gratitudine, che è un sentimento religioso, nonosante il suo non aver  più voglia  “di attendere risposte”, nonostante “ questo mondo strano / che Dio / che Dio l’Onmpotente/non ci sa spiegare” che avvolge persone e cose: una gratitudine che si fa tenerezza.  E si veda l’attacco dolcissimo della poesia a Daniele, un suo figlio: “Cuccìolo d’uomo/bambino mio/dentro il mio letto/rannicchiato e pago/come se il mondo/l’unìverso intero /capitolasse/ sopra il mio seno. ..”. Qui c’è quella gioia alla quale alludevo, e che si fa vibrante, densa,  nelle poesie d’amore come in “Donna” (dove c’è un languore tutto femminile) o nella “Dedicata a te” che così si conclude: “... in cui nuotava il mio cuore/e si bagnava/e beveva d'un sorso/la gioia/di averti ancora/di averti vicino/di averti”. E quel verso finale, con la sua forza perentoria, è da solo un canto d’amore. E femminilmente imbronciata (colgo l’aggettivo dal testo) è questa poesia che mi sembra fra le più felicemente risolte: “Ai pensieri/che imbronciano le linee al tuo profilo/vorrei legare un sasso/e sprofondarli/giù/dove il ricordo/ non è che un' ombra vana/che si dilegua in fretta/come Didone/nel bosco dei suicidi”. 
 Anche  il paesaggio, dove interviene, è guardato come una  persona, con gli stessi stati d’animo e lo stesso affetto, fino a  giungere ad una sorta di identificazione: “Vorrei essere te/paese che neanche/sei mio/ accartocciato/nel fumo. . .”. Quell' “accartocciato” fa pensare ad un cappotto che uno si stringe   sulle   spalle. E analogamente “umano” il verbo “rannicchiarsi” che la Rivelli  usa in “Sera”. “Cala il sipario/sul giorno che scompare/e si rannicchia il gelo/sopra il vetro...”. Notate: si rannicchia  come il suo bambino!  È il modo della poetessa di  abbracciare con lo stesso cuore le persone care, le cose e il mondo.
Una poesia apparentemente facile, spontanea quella che ora qui leggiamo, grazie anche al dono faro della chiarezza, ma non  semplice: poesia che ha filtrato e fatte proprie tutte le esperienze  novecentesche riportate, fortunatamente, senza subire nè il fascino nè tanto meno l’intimidazione  degli “ismi”, delle mode  imperanti, alla propria natura che sa stemperare in una sorta di quieta  accettazione  (propria di chi sa dire senza angoscia “gli anni/che non sono miei” e “stringo la vita/che so non mi appartiene”)
anche il dolore e la morte così presenti in questi versi.
        Luciano Luisi (1999)









da "La Repubblica" del 28 settembre 1999







da "La NUova Basilicata" del 12 ottobre 1999






da "La Gazzetta del Mezzogiorno" 12/10/1999




da "La gazzetta del Mezzogiorno" del 13 ottobre 1999
























da "La Nuova Basilicata" del 15 ottobre 1999

























(Postfazione di Ubaldo Giacomucci per il volume di poesie "Rosso stillante")

… questo testo poetico è il felice risultato di un personale percorso stilistico e di uno scavo sulla parola, di una ricerca linguistica e simbolica condotta lavorando sull’essenzialità dell’espressione e sull’allusività del testo, che permette l’elaborazione di simboli di notevole profondità.
La forma poetica, quindi, oltre a possedere una spiccata originalità di impostazione, elabora la forza descrittiva delle immagini, con un linguaggio moderno dovuto al lessico quotidiano e comunicativo, che valorizza efficacemente l’itinerario espressivo…
    Ubaldo Giacomucci 1999







da "La gazzetta di Basilicata" 17 giugno 1999






































(Postfazione dell'Editore Maremmi per il volume di racconti  "Reportage di un unico grido")

Forse nessun altro titolo sarebbe stato più appropriato per questa breve raccolta di racconti di Anna Rivelli. Il suo grido è come reazione istintiva, è l’Ur-Schrei dei tedeschi, l’urlo primordiale, antico come l’uomo, che esprime la complessità dei suoi sentimenti di paura, o, meglio, di incertezza, di smarrimento e di angoscia, cose diverse –come direbbe Kierkegard – dalla paura che è, invece, determinata dal nulla. E’ come Il grido di Munch che non si esaurisce in se stesso, ma che nasce piuttosto dalla prospettiva lunga e obliqua del ponte che attraversa in verticale i molteplici aspetti della vita dell’uomo; è angoscia esistenziale, è vertigine, è guardare nell’abisso di sé. “Ho sentito questo grande grido venire da tutta la natura” dice il pittore.
Sulla lunghezza allucinante di questo ponte Anna Rivelli osserva i variegati paesaggi della vita dove il grido è pianto, ma anche riso, dolore e ironia: l’uomo nella complessità drammatica e grottesca del suo esistere.
 L’Editore (1996)





(Prefazione di Arduino Rossi per il volume di poesie "Irriverenti geometrie")

Anna Rivelli è una poetessa in equilibrio tra stili, tecniche, conoscenze dotte, ironia.
Nelle sue liriche il paesaggio prende sembianze e modi umani (Lega i capelli al giorno/l'orizzonte...). Il suo spirito veleggia sopra un mondo naturale dove l'Io, con la sua soggettività, spazia, si amplia, si confonde e quasi si smarrisce (...)
Quindi ella è un'abile dominatrice di intimi sentimenti, che si dilatano tutt'attorno a Lei, un Lei però impersonale, quasi oggettivo, privo di quella presenza ossessiva dei versi dei narcisisti e degli esibizionisti.
Rivelli si mette in disparte, suggerisce, bisbiglia la sua concezione del Creato sia visibile che invisibile. Propone forse il superamento della Tesi e dell'Antitesi con una Sintesi inglobante ogni cosa?
Sicuramente si avvicina a una "fede" che si spinge verso il mare dell'oblio, il nulla. Quale tipo di infinito vuoto è il suo? L'Universo, con le sue leggi e i suoi flussi, scorre nel tempo verso il Nirvana o la morte del tempo?
E' una domanda alla quale non si può dare risposta, l'unica certezza sta nel presente e in un ricordare malinconico, ma ancora vivo con la concretezza dell'oggi (Non è passato il tempo/...lezioni della vita/ come nei banchi...).
Altro fattore fondamentale, però fantasioso, è nel far vivere ciò che non visse mai (Legga pure il giornale/abortito Pinocchio/... nella cronaca muore, senza fiaba oramai ).
L'attuale, le rimembranze e il possibile mai realizzato stanno alla base di un dolce languore liquido ed evanescente.
Ciò che prevale è l'esistenza e il dolore, la forza della violenza contro gli ultimi, i piccoli (AI BAMBINI UCCISI: Angeli non sprofondati/ ai bottoni di lutto... restate soli/a sgocciolar vita rimpianta...).
C'è pietà nelle poesie di Rivelli, ma non pietismo indecoroso: i drammi umani e gli orrori sono descritti, sempre descritti con quel distacco di chi non vuol giudicare, ma principalmente capire ciò che non si può comprendere: la sofferenza, la fine delle speranze, il corso degli astri e il perché di tanto patir tra i mortali. Sono i soliti dilemmi della poetica classica, tipici di Foscolo, Leopardi, Quasimodo, Montale, ecc..., ma senza la monotona ripetizione pseudo-filosofica di tanti, troppi, intellettuali verseggiatori, che si "lagnano" continuamente per la condizione umana, misera e vana, scopiazzando idee ai grandi per sentirsi grandi. Qui abbiamo una dimensione tutta personale: nulla è imitato, ma le lezioni dei Maestri sono state ben assimilate.
Poesia per Rivelli non è solo espressione di pulsioni, istinti, vigore e forza, fantasie oniriche, cordialità. Ella sa dare e rigenerare una sua realtà, profonda, delicata, sottile quanto un concetto avvolto da una nebbia crepuscolare, o di alba rinnovatrice. Sa pure donarci quei momenti di silenzio, quando la pace cala dentro, sino al fondo dell'anima (Non togliermi, ti prego, il mio silenzio/ pieno di te...). Che c'è di meglio della contemplazione, o del sentirsi al centro di un amore platonico, idealizzato? (seduta una madonna/ mi sento/e tu il devoto/ in ginocchio alla mia vita...).
Comunque solo i lettori più attenti e sensibili percepiranno la morbida bellezza dei versi descrittivi di luoghi e ambienti (...dove verde è tutto/ ...narra l'erba/di storie del passato/ ...policromie sdrucite/ ...l'incanto palpita/ ...crolla il sole sull'acqua...).
Non ci sono astruse costruzioni matematiche o alogiche, oppure di ricerca linguistica, anche di gusto caduco, accademico: solo un cordiale suggerire di stati d'animo, da innamorata di ciò che è bello, sfugge da queste pagine.
Non posso che consigliare ai lettori di immergersi, di soffermarsi senza remore in questa lettura, certamente piacevole (come dovrebbe essere sempre la poesia), ma "riservata" unicamente a chi è già conoscitore di tecniche e scaltrezze celate, menti capaci di differenziare tra ciò che è arte da ciò che è pura applicazione  di regole, apprese con lo studio.
           Arduino Rossi (1992)