da IL ROMA del 31 maggio 2018
da IL ROMA del 20 ottobre 2017
da LA NUOVA DEL SUD dell' 1 agosto 2017
Michele Brancale ( da Toscana Oggi del 9 luglio 2017)
dalla GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO del 3 luglio 2017

da IL ROMA del 26 giugno 2017
da LA NUOVA DEL SUD del 24 giugno 2017
da LA NUOVA DEL SUD del 21 giugno 2017
Angela Salvatore per Sineresi (Il Quotidiano del Sud del 19 marzo 2015)
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Lucia Serino per Sineresi (Il Quotidiano del Sud del 17 marzo 2015)
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"Diphda non è solo un gatto" a Milano (2 ottobre 2014)
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Il Quotidiano della Basilicata 2 ottobre 2014 |
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Un viaggio nelle incertezze della vita
(Chiostro del Comune di Avigliano, 29 giugno 2014)
di Vito Santarsiero
"Diphda non è solo un gatto" è fondamentalmente un bel libro di Anna Rivelli, l'ho letto con piacere e vi offro una mia personale recensione.Volume delizioso,divertente,filosofico,in
alcuni momenti esilarante.Le apparizioni di un gatto morto che
avvengono da tempo nella casa di Pier unitamente ad altri eventi
misteriosi ed inspiegabili,coinvolgono
via via anche i suoi amici in una costante e progressiva azione
demolitrice delle loro certezze poste in una "rassicurante e plausibile
razionalità " che nega ogni forma di mistero e di trascendenza del
reale, sino a farli ritrovare smarriti dinanzi a vicende surreali
destinate ad annullare i loro "ultimi residui di razionalità". È un
viaggio nelle incertezze della vita senza avere l'ambizione di offrire
soluzioni. Ciascuno dei
sette giovani come Greg "l'ipotesi che esistesse un'anima l'aveva
abbandonata sopra il banco della prima Comunione e gli oggetti fatati li
aveva confinati nell'irrealtà da quando a otto anni il tappeto della
sua cameretta non ne aveva voluto sapere di fargli sorvolare il mondo
come Aladin",tutti però, anche i più scettici, restano stupiti,sorpresi,impauriti
dinanzi alle vicende surreali che vivono senza riuscire ad elaborare
alcun pensiero se non esprimere sbigottiti commenti e l'incredula
ricostruzione dei fatti.È il segnale di una debolezza culturale che
appartiene ad una generazione tanto gioiosa e preparata quanto poco
riflessiva sui problemi più veri e profondi della vita. Le riflessioni
più belle appartengono alla lettera di Mom, un vero ammonimento,e a
quelle che accompagnano qui e lì il testo. Il libro non lascia soluzioni
ai temi della morte,della sofferenza, della bellezza, pone i problemi, offre stimoli ma sostanzialmente
lascia tutto sospeso tranne la certezza che ci trasferisce con Gibran (
quel continuo apparire del volume del poeta Libanese è un po' come
volerlo indicare ,con la sua visione della vita, a faro e riferimento) :
"ma l'eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo" e "ogni cosa che
esiste è solo una parte del tutto e,per ciò stesso,è il tutto.E il
tutto,non può essere "solo" il tutto". Tra misteri, paure e discussioni il
libro ci offre anche momenti di grande comicità nelle varie e
paradossali situazioni che si determinano con l'apparire e scomparire di
Diphda. Una avvincente lettura per la nostra estate.
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Il gatto Diphda protagonista nel Chiostro del Comune
(Articolo del Quotidiano della Basilicata del 2 luglio 2014)
di Angela Salvatore
Diphda è la stella beta della costellazione della Balena, non è solo un gatto?
Ma se non è solo un gatto allora che cos'è? È la domanda che ogni lettore si
porrà davanti all' allegorico e avvincente romanzo della nota poetessa e
scrittrice lucana Anna R. G. Rivelli.
L'opera dal titolo "Diphda non è solo un gatto" Edizioni Tracce è
sicuramente il frutto di un appassionato e intenso lavoro di un'autrice di
particolare acume e sensibilità. Rivelli, con un libro che sin dalle prime
battute assume contorni spirituali e immateriali, travalicando la materialità e
finitezza della scrittura, è alla ricerca di risposte che investono l'intera
esistenza e che mettono in discussione dogmi apparenti.
"Lea e Pier avevano adottato entrambi la medesima strategia che, alla fine,
è quella che accomuna molti uomini: fingere, non farsi domande, lasciar perdere
così da accomodare l'esistenza in certezze mendaci piuttosto che scomodarla
dentro verità incerte" - scrive in un passo dell'opera.
Il protagonista indiscusso del libro è Diphda, un gatto che ad un certo
punto muore, nel senso fisico del termine, ma al di là di ogni ragionevole dubbio,
continua a vivere e a mostrare i segni della sua presenza non come un'ombra che
si aggira in casa di Pier, bensì come un'entità dal ruolo ben preciso.
Lo spirito dell'animale che aleggia negli ambienti domestici, si inserisce
in un contesto narrativo più ampio e disseminato di espedienti letterari
diversi, ma convergenti in un unico punto: la presa di coscienza dell'importanza
di un soffio vitale dell'Universo che, in un continuum spazio -temporale,
riunisce tutti gli esseri viventi senza distinzioni o gerarchie.
Comprendere che siamo parte di un tutto che non ha soluzione, ma come filo
che si dipana all'infinito, muta la sostanza ma non l'essenza, non è affatto
semplice: è un pensiero che ci spinge alla radice di una natura così mutevole,
talmente vasta, da non poter essere afferrata con gli schemi della
ragione.
"Pier dal canto suo, piuttosto che dover mettere in discussione tutta la
sua visione della vita, faceva come nulla fosse, con l'assurda pretesa che la
realtà presto o tardi dovesse adattarsi al suo sentire"- scrive Rivelli.
Demoliti i pilastri della conoscenza, in un retaggio di concezioni
filosofiche dal sapore antico e intrise del mistero e del sincretismo delle
religioni orientali, non resta che lasciarsi guidare dalla voce dell'artista che
cerca di scomporre il buio dell'esistenza con la sua opera paideutica e
liberatoria.
È la trama stessa del romanzo, infatti, a fornire un punto di approdo al
comune senso di smarrimento di un gruppo di giovani che vagano come rami
abbandonati nel mare della vita.
Nel corso della presentazione del volume presso il Chiostro del Comune di
Avigliano, proprio su quest'ultimo aspetto ha soffermato la sua attenzione il
consigliere regionale Vito Santarsiero, ribadendo l'importanza di un punto di
riferimento per quanti, da soli, non riescano ad afferrare il bandolo della
propria esistenza e abbiano bisogno di trovare le giuste risposte a cruciali
interrogativi.
Un armadio sormontato da inquietanti mascheroni, un libro di Gibran, le
fatemorgone, nel libro non sono altro che simboli del mistero della vita,
elementi che affascinano ma nello stesso tempo tormentano. Sono immagini dalla
duplice valenza: affiorano in punti specifici della narrazione per risolvere la
trama e inducono il lettore a valicare i confini della parola, trascendendo la
scrittura.
Laddove con la ragione non è possibile andare avanti, bisogna lasciarsi
trasportare da "quell'alito che ci fa vivi già sulla soglia della nostra vita e
sul suo limite estremo". L'iniziativa promossa da un'associazione lucana che non
a caso prende il nome di Lucanima, presieduta da Mara Sabia, ha riunito in un
unico e grande soffio poesia, filosofia, letteratura, religione.
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Articolo del Quotidiano della Basilicata del 18 maggio 2014
di Angela Salvatore
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Articolo del Quotidiano della Basilicata del 6 maggio 2014
di Angela Salvatore
Il linguaggio poetico di Anna R.G.Rivelli nella silloge La voce che scompone il buio.
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Il linguaggio poetico di Anna R.G.Rivelli nella silloge La voce che scompone il buio.
(Biblioteca comunale - Tramutola, 3 maggio 2014)
di Francesco Saverio Lioi
Una
poesia non facile questa della Rivelli, ma spontanea e che ha nella parola
straniata dalla lingua d’uso la speranza di accedere al mistero della esistenza
destinata a vivere nel dubbio; di trovare un appiglio che risolva il buio che
circonda la vita, e questo appiglio per la nostra poetessa è l’arte poetica,
solo la poesia può dare l’appagamento ai tanti quesiti che giornalmente
angustiano la vita. La voce della poesia, secondo la nostra poetessa, squarcia
le tenebre della vita.
La tecnica del verso, il linguaggio poetico,
la maturazione del messaggio umano che traspira dai versi hanno acquistato di
volta in volta una sempre più completa consapevolezza. Il lettore superficiale
può trovare distrutto, disintegrato il verso, ma deve inchinarsi di fronte alla
ricerca della essenzialità della parola, attraverso le infinite modulazioni che
la libera da ogni incrostazione letteraria, e non comprime l’afflato
lirico-culturale che promana da un substrato
consolidato, oseremmo dire, da vis
poetica. La poesia della Rivelli è affidata alla suggestione fonica delle
parole piuttosto che a un coordinato disegno di strofe e di rime, è lontana dal
semplicismo e dalla discorsività superficiale e narrativa di tante raccolte di
versi che oggi incrementano il numero di libelli di sedicenti poeti. I
frammenti lirici della Rivelli senza dubbio possono essere acquisiti alla
coscienza poetica di questo terzo millennio ed entrare di diritto non solo
nella letteratura lucana. Interessante sarebbe chiedere alla poetessa le
varianti che ha apportato alla formulazione di ogni testo, ci darebbero il
percorso che ha dovuto fare per giungere al testo definitivo. Le varianti
svelano non solo il percorso linguistico, metrico e di ritmo, ma anche di
pensiero, perché una parola non porta solo il significato letterale, ma anche
quello che essa acquista dal contesto, dalla callida iunctura che dà nuovo e più pregnante significato ad una
parola messa in un determinato contesto.
Prendiamo un testo della Rivelli, estrapoliamo
da esso una parola, vedremo che questa non ha solamente il suo significato
letterale, ma acquista più pregnanza andando al di là del suo significato d’uso.
Non dalla silloge in questione per non togliere al lettore il piacere di una
sua interpretazione, ma come esempio l’incipit della silloge Se il resto tace.
È pace / Non dorme la notte / ascolta /
l’armonia dei pianeti / seduta sui tetti / con le gambe penzoloni.
La
notte è di per sé molto poetica, perché confondendo gli oggetti, dà delle cose
un’immagine vaga, indistinta e perciò di pace. La notte ascolta l’armonia dei
pianeti, con uno scambio di sensazioni che vanno dalle visive alle uditive. La
poetessa non vede, ma ascolta la bellezza dell’universo, dei pianeti: tanto si
è innaturata, intimamente unita alla natura, che non ha potuto usare altra
parola che armonia, parola che ha nell’etimo greco ar l’idea di un’intima unione ( ar
= unione, mon suffisso
aggettivale che indica disposizione, ia suffisso
nominale che indica l’azione e il suo effetto, il verbo greco harmo significa unisco). Il termine
armonia, oltre al significato usuale di concordanza di suoni e di voci, vuole
indicare l’intima unione dell’animo della poetessa con la natura, l’innaturarsi
nello spazio cosmico. Senza dubbio è questa una interpretazione che non tutti i
lettori potrebbero condividere, ma la poesia per sua natura è ambigua e si
presta ad interpretazioni diverse, come dicono i secoli di studi sulla Divina
Commedia.
Il
linguaggio poetico della Rivelli offre un uso sapiente delle figure retoriche e
una lingua che scaturisce da un profondo sentire le cose. L’armonia per la
Rivelli non la si ascolta, si vede con la mente, si sente con l’anima. Così la
voce nel titolo della silloge oggetto della nostra chiacchierata non rompe il
silenzio, ma scompone il buio, quasi che un grido illumina l’oscurità
frammentandola e analizzandola in tutte le sue componenti. Ma qui, certo, è la
voce poetica che squarcia il buio della mente, che apre orizzonti infiniti a
problematiche esistenziali che solo la poesia può lenire. E il linguaggio
poetico per sua natura è metaforico e porta il lettore sempre al di là di
quello che la lettura letterale o soggettiva esprime. Polisemia e metafora,
pertanto, sono la base del linguaggio poetico. Un lettore consapevole studia la
struttura metrica, ritmica, fonica e semantica di un testo. La lingua così
sviluppa le proprie potenzialità evocative ed espressive, ed ha alla base lo
straniamento dal linguaggio usato non solo giornalmente, ma anche da quello
della prosa. Questa normalmente presume razionalità, chiarezza, proprietà di
lingua, quella ha alla base il sentire poetico e l’immaginazione, quindi l’uso
della metafora, della sinestesia, delle figure retoriche in generale. Ha
bisogno pertanto la lingua poetica dell’ermeneutica, di essere cioè
interpretata. Spesso un testo poetico dice al lettore non quello che il poeta
ha voluto dire, ma quello che l’interprete gli vuole far dire, ma questo
significa travisare il testo.
Chi
è pertanto l’interprete? Questa parola, come del resto tutto l’italiano, ha
come base il latino, ed il latino ha origine dal linguaggio rurale. Nell’antica
Roma l’interprete era colui che determinava il prezzo di un animale, di una
merce, inter praetium, era pertanto
l’intermediario tra la merce da vendere e il compratore. Il termine è passato
in un secondo tempo ad indicare un lavoro intellettuale, e l’interprete è colui
che si pone tra il testo dell’autore e il messaggio che l’autore vuole lanciare
ai lettori. I lettori sono tanti nel tempo e nello spazio, ognuno di noi è
lettore interprete che il più delle volte adatta a sé il portato poetico del
testo col quale fa i conti. Il
linguaggio poetico può diventare duro, faticoso, ermetico, quasi scontroso, privo
di lirismo o di musicalità, ma il lirismo e la musicalità son dati dalla parola
e dal significato allegorico e metaforico che questa nasconde, son dati dal
ritmo che le parole assumono nella frase poetica. Diventa allusivo con parole non comuni che
rimandano ad una realtà spesso priva di certezze. Bonsera ha dimostrato cosa
allude il termine chitone, termine che indica un indumento oggi in uso, ma che
rimanda allusivamente ad un mondo lontano nel tempo, termine usato nella lirica che dà titolo alla
silloge che questa sera abbiamo l’onore di presentare al pubblico di Tramutola.
Solo la poetessa può dire se la mia interpretazione di armonia e quella di
Bonsera di chitone sono giuste. Diventa
criptico il linguaggio poetico perché il travaglio esistenziale che fa da
sottofondo a molte liriche deve spingere il lettore ad una meditazione sul contenuto
poetico prima che al godimento estetico che la lettura di una lirica deve dare.
Il godimento estetico capterà il lettore quando avrà capito il testo e si sarà
formata un’empatia fra autore e lettore.
Le
liriche di questa silloge mettono il lettore psicologicamente e ideologicamente
di fronte ad un volontà di negazione e di confronto con la necessità. Tu, uomo,
non chiederti il perché il male di vivere giunge col vento di un agosto inerme.
Scire nefas, dice la poetessa. La negatività, data dal male di vivere,
ignobile balzello che l’uomo è costretto a pagare, viene espressa con la
scomposizione del verso e con una
disgregazione formale che formano un reticolo di contingenze che toccano da
vicino la vita. La natura è presentata nel suo essere, l’orizzonte glabro, che
non permette nulla di buono come un uomo imberbe, glabro. È l’immagine qui che
esprime la negatività, della quale conoscere il perché non è lecito. Cosa porterà
il domani con quell’orizzonte glabro, nel quale la città perde vigore , tu,
uomo non chiedere. Cosa sarà domani la tua vita, adolescente glabro? Scire nefas. Il nefas è un qualcosa voluto dal fato, di fronte al quale l’uomo è
impotente. Il nefas e il fas per gli antichi erano di dominio
assoluto della divinità, e l’uomo non poteva farci nulla! La poetica del non,
del negativo viene da lontano: Orazio, l’epigramma greco, Montale. Le liriche
iniziano con immediatezza carica di rilevanza esistenziale, senza fronzoli e
descrizioni inutili che allontanerebbero il lettore dal nucleo essenziale del
messaggio poetico. I versi scarnificati, senza segni diacritici ripropongono la
tecnica ed il ritmo fonico ungarettiano, non perdono la essenzialità di una lettura
ritmica, conservano il senso unitario e definiscono lo stato d’animo della
poetessa che ha ispirato la lirica. Stato d’animo spesso chiuso in una
composizione ad anello come nella lirica Con
le mie mani ancora piene di favole.
Il debito che la Rivelli ha contratto con la cultura
letteraria classica e moderna può essere rilevato da una attenta e meditata
lettura di testi di non facile ed immediata comprensione. Basta un sostantivo,
un nome a svelare il legame fra la Rivelli e la cultura classica e italiana.
Leggiamo Le tue finestre a settentrione.
Le suggestioni vanno dall’epica greco-romana, alla tragedia classica e a tutto
il mondo poetico magno greco. Non descrizioni e prese di posizioni, ma una
parola, un’allusione e con una grande efficacia espressiva si apre un mondo. I
versi di questa silloge, ma non solo di questa, sono venati da una sottesa cripticità
poetica, che va interpretata con acume, sono coperti da un sottile velo che va
sollevato con una puntigliosa ermeneutica per trarre fuori cosa nascondono con
la loro arte allusiva. Sembra che la poetessa non voglia rivelare il nucleo
centrale del componimento racchiuso spesso in una metafora. Le liriche nascono
da un rifiuto formale della tradizione metrica, non certo da una profonda e
sentita rielaborazione di questa. Il
verso strutturalmente scarno, con sostantivi non aggettivati, a volte
conserva un andamento con la rima, anche con assonanza, che accentua il ritmo,
come in:
Un alibi di mare spiazza / Le tue finestre a
settentrione / E muta in paradosso di certezze / La distrazione
Non si vuole certo limitare
la fonte di ispirazione della Rivelli, che scaturisce da un sentire le cose con
animo profondamente poetico. Anna Rivelli è poeta anche nelle prose che
intervallano le sue sillogi di poesie. È il caso della raccolta di prose del
volume L’immanenza nella quale filo conduttore è il ritmo che danno le
parole sapientemente disposte che viene spontaneo nella lettura. Le prose di
Anna non hanno il verso, ma hanno tutto della poesia, linguaggio, ritmo e
ispirazione, che rendono labile il confine fra prosa e poesia. Un sottile
pessimismo permea i versi di questa silloge, che culmina nella lirica in prosa
dell’ultima pagina dedicata alla tragedia umana che si ripete continuamente
sulle acque dei nostri mari. Una prosa lirica ad anello che racconta i sogni,
di quell’uomo che cercava una terra ed ha smarrito il cuore.
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Recensione alla silloge poetica "La voce che scompone il buio"
(da IL QUOTIDIANO DELLA BASILICATA 27/04/2014)
di Angela Salvatore
"Oggi la poesia è un
movimento clandestino di resistenza" scrive Maria Luisa Spaziani sulla
condizione della poesia in Italia, espressione fulminante che ben si adatta a
rappresentare la poetica di Anna G. R. Rivelli, che, nonostante l’obnubilamento
di tutti i valori positivi della società italiana, è mossa dalla fede
nell’opera educatrice delle “humanae litterae” e, in particolare della
poesia.
Rivelli, docente di
italiano e latino presso il Liceo Scientifico Galilei di Potenza, vanta una
variegata produzione letteraria che spazia dalla critica d’arte al giornalismo,
dalla poesia alla narrativa, grazie al possesso di una profonda cultura
umanistica e di un linguaggio ricco ed espressivo che riesce a modulare nelle
varie tonalità: dall’ironia polemica sino all’invettiva, alle corde del
sentimentale e dell’intimismo; un linguaggio che, pur nella sua complessità e
sperimentalismo ha un solo punto di approdo nella rappresentazione dell'essere e
del finito nella sua continua aspirazione a confrontarsi con l'infinito.
L'infinito, tuttavia, non si configura come un'entità specifica di accezione cristiana, bensì come una sorta di immanenza. La stessa autrice spiega che cosa intenda per “immanenza” nell'omonima opera edita nel 2003: l'immanenza è alla base di qualsiasi espressione artistica e nasce dall’espansione di un'emozione che, pur materializzandosi, mantiene intatta la sua essenza spirituale. Attraverso le manifestazioni artistiche nel senso più ampio e completo del termine, finito e infinito, essere e immanenza, sembrano confondersi al punto da annullare qualsiasi distinzione.
L'infinito, tuttavia, non si configura come un'entità specifica di accezione cristiana, bensì come una sorta di immanenza. La stessa autrice spiega che cosa intenda per “immanenza” nell'omonima opera edita nel 2003: l'immanenza è alla base di qualsiasi espressione artistica e nasce dall’espansione di un'emozione che, pur materializzandosi, mantiene intatta la sua essenza spirituale. Attraverso le manifestazioni artistiche nel senso più ampio e completo del termine, finito e infinito, essere e immanenza, sembrano confondersi al punto da annullare qualsiasi distinzione.
Nella silloge poetica
appena uscita “La voce che scompone il buio”, edita dal Premio Letterario
Basilicata, riscontriamo la traccia più profonda e completa di un'opera d'arte
intesa nelle sue più versatili manifestazioni. Tra le parole e le immagini, in
una totale intima fusione, pare esserci un vivace e proficuo interscambio ben
esemplificato dal titolo di una mostra dell'artista potentino Giovanni
Cafarelli, legato all'autrice tanto nella vita quanto nell'arte: La voce che
scompone il buio.
Che legame c'è tra un testo poetico e una mostra pittorica, il cui filo conduttore è la matericita' e cromaticita' del paesaggio lucano raffigurato nella più completa astrazione? Ciò che lega i due autori, la poetessa e il pittore, e la loro opera, è la volontà di rendere l'arte un momento di riflessione, un'occasione per pensare. La voce di ogni artista è la voce di chi tenta di scomporre il buio dell'esistenza sino ad annullarla. Rivelli, attraverso un linguaggio ricercato in grado di fondere le sfere sensoriali, prova a svelare il senso più profondo e celato del reale. Luce e buio convivono in un eterno dualismo ed è questo l'arduo compito in cui si cimenta l'autrice: rendere infinito e finito sempre più vicini sino a pervenire a una sintesi e a trovare le giuste risposte a molti interrogativi.
Che legame c'è tra un testo poetico e una mostra pittorica, il cui filo conduttore è la matericita' e cromaticita' del paesaggio lucano raffigurato nella più completa astrazione? Ciò che lega i due autori, la poetessa e il pittore, e la loro opera, è la volontà di rendere l'arte un momento di riflessione, un'occasione per pensare. La voce di ogni artista è la voce di chi tenta di scomporre il buio dell'esistenza sino ad annullarla. Rivelli, attraverso un linguaggio ricercato in grado di fondere le sfere sensoriali, prova a svelare il senso più profondo e celato del reale. Luce e buio convivono in un eterno dualismo ed è questo l'arduo compito in cui si cimenta l'autrice: rendere infinito e finito sempre più vicini sino a pervenire a una sintesi e a trovare le giuste risposte a molti interrogativi.
La copertina del volume
dalla preziosa veste grafica è a riguardo assai esplicativa. Opera dell'artista
Salvatore Comminiello, raffigura un orecchio attraversato da un fascio di luce
su uno sfondo buio, man mano che il raggio attraversa il sentire umano la sua
cosistenza si va via via diradando verso l'alto sino a disperdersi in uno spazio
bianco ove non si scorge più nulla di concreto.
La poesia di Rivelli è di impegno civile e morale e tocca più temi dalla religione al Mezzogiorno, dalla stragi di emigranti al gesto estremo di un'adolescente.
Tutti i componimenti hanno una costante: la sensibilità e l'acume di un'autrice che osserva la realtà senza filtri e che, in assoluta libertà, prova con la sua voce a dare un contributo , tanto intellettivo quanto emozionale, attraverso la rappresentazione attenta della condizione dell'uomo in tutte le sue fragilità e contraddizioni.
La vita è un punto/tremulo di luce/distante/un peschereccio perduto nella notte/ scrive Anna Rivelli nella poesia "La vita è un punto" che ben esemplifica la condizione di smarrimento dell'uomo di ieri e di oggi che, attraverso la smania eccessiva del possesso coniugato a più livelli, all'alba potrà anche avere "piene le reti" ma di sicuro avrà "vuoto il cuore".
Il cammino di ogni individuo non soggiace ad alcuna logica predefinita, è un percorso ignoto che non conosce punto di approdo perché In fondo/andare non è sperare/un porto , scrive l'autrice nella poesia dedicata a Martin Bradley.
La precarietà di ciascuno non scaturisce soltanto da situazioni contingenti ma è la cifra distintiva dei sentimenti più puri, è un impoverimento interiore: e avrà pietà/di noi la sorte/e il fato, la regia/di questo corto/dove davvero/l'amore è un fotogramma, scrive nel componimento "L'amore è un fotogramma".
Dietro l'apparente pessimismo che pure trapela in alcune poesie, c'è, tuttavia, in ogni manifestazione artistica, la volontà di reagire, di porre un freno a un inesorabile scivolamento nel "buio" mettendosi in discussione, ponendosi delle domande alle quali pare non esserci una risposta, ma che in ogni caso sono utili a riprendere il contatto con la realtà, a risvegliare gli animi dall'indifferenza e dallo straniamento: Di fronte al tuo morire/ognuno ha sedici anni./Ma sedici anni in più, scrive nella poesia "A.....".
È questo il senso dell'intera silloge, raggiungere il lettore e smuovere le coscienze, far sentire la propria voce attraverso un libro maneggevole e tascabile, piccolo ma ricco di spunti, prezioso sotto vari punti di vista. Il libro sarà presentato in anteprima il 3 maggio a Tramutola per iniziativa del Circolo Culturale Silvio Spaventa Filippi e del Circolo Vincenzo Ferroni.
La poesia di Rivelli è di impegno civile e morale e tocca più temi dalla religione al Mezzogiorno, dalla stragi di emigranti al gesto estremo di un'adolescente.
Tutti i componimenti hanno una costante: la sensibilità e l'acume di un'autrice che osserva la realtà senza filtri e che, in assoluta libertà, prova con la sua voce a dare un contributo , tanto intellettivo quanto emozionale, attraverso la rappresentazione attenta della condizione dell'uomo in tutte le sue fragilità e contraddizioni.
La vita è un punto/tremulo di luce/distante/un peschereccio perduto nella notte/ scrive Anna Rivelli nella poesia "La vita è un punto" che ben esemplifica la condizione di smarrimento dell'uomo di ieri e di oggi che, attraverso la smania eccessiva del possesso coniugato a più livelli, all'alba potrà anche avere "piene le reti" ma di sicuro avrà "vuoto il cuore".
Il cammino di ogni individuo non soggiace ad alcuna logica predefinita, è un percorso ignoto che non conosce punto di approdo perché In fondo/andare non è sperare/un porto , scrive l'autrice nella poesia dedicata a Martin Bradley.
La precarietà di ciascuno non scaturisce soltanto da situazioni contingenti ma è la cifra distintiva dei sentimenti più puri, è un impoverimento interiore: e avrà pietà/di noi la sorte/e il fato, la regia/di questo corto/dove davvero/l'amore è un fotogramma, scrive nel componimento "L'amore è un fotogramma".
Dietro l'apparente pessimismo che pure trapela in alcune poesie, c'è, tuttavia, in ogni manifestazione artistica, la volontà di reagire, di porre un freno a un inesorabile scivolamento nel "buio" mettendosi in discussione, ponendosi delle domande alle quali pare non esserci una risposta, ma che in ogni caso sono utili a riprendere il contatto con la realtà, a risvegliare gli animi dall'indifferenza e dallo straniamento: Di fronte al tuo morire/ognuno ha sedici anni./Ma sedici anni in più, scrive nella poesia "A.....".
È questo il senso dell'intera silloge, raggiungere il lettore e smuovere le coscienze, far sentire la propria voce attraverso un libro maneggevole e tascabile, piccolo ma ricco di spunti, prezioso sotto vari punti di vista. Il libro sarà presentato in anteprima il 3 maggio a Tramutola per iniziativa del Circolo Culturale Silvio Spaventa Filippi e del Circolo Vincenzo Ferroni.
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Prefazione alla silloge poetica "La voce che scompone il buio"
di Santino G. Bonsera
Seguo l’attività letteraria di Anna R.G.Rivelli da
molti anni, lungo i quali ella è venuta svolgendo una produzione articolata che
si è spartita in versanti diversi della scrittura, dalla critica d’arte al
giornalismo, dalla narrativa alla poesia, forme della sua multiforme attività
letteraria coniugate in uno scambio fecondo tra pagine di generi
diversi, in un processo creativo intimamente coerente.
Agli esordi della sua attività letteraria, si muoveva nell’orbita del
suo docente di storia dell’arte, Luigi
Kalby, col quale discusse la tesi di laurea
sulla scultura lignea in Basilicata dal XII al XIX sec. Di quel primo periodo,
io ricordo alcune pagine sull’arte visiva, qualcuna pubblicata sulla rivista
Leukanikà, pagine che poi avrebbe riprese nel libro L’Immanenza
(2003). In questa singolare opera Rivelli non ci dà la lettura dell’opera d’arte in base
alle metodologie didattiche, ma ri-crea, o meglio, re-inventa, nel senso
etimologico di inventio, un nuovo
esemplare che con l’archetipo ha un rapporto soltanto genetico.
Questo libro nasce dalla
suggestione di una idea michelangiolesca, secondo
cui il compito dell’artista è quello di liberare la statua, che è già in
potenza nel blocco di marmo. Idea aristotelica, che la Rivelli trasforma nella
socratica maieutica di “tirare fuori”, far nascere dall’opera d’arte “una nuova
forma di vita”, che si anima nell’abbandono onirico della fantasia. E mi sembra
di poter capire che per Rivelli l’ emozione estetica originata da un’opera
diventa una forza dinamica che agisce a livello dell’inconscio, liberando
immagini che non hanno più un rapporto
diretto con l’esemplare artistico contemplato, ma con gli intimi suoi grovigli esistenziali.
Ma Rivelli
è soprattutto una poetessa, e lo è anche
quando scrive in prosa per la spiccata tendenza a risolvere in immagini i contenuti del pensiero. La sua
prima raccolta di poesie pubblicata con
il titolo Irriverenti geometrie risale
al lontano 1992, cui seguiranno altre tre sillogi, l’ultima delle quali, Se il
resto tace, del 2002. Da allora i
suoi nteressi letterari si sono ampliati al giornalismo e, soprattutto, alla
narrativa, nella quale è esplosa con un bellissimo romanzo, Il ragno, prontamente apprezzato dalla giuria per la “Narrativa” del Premio Letterario
Basilicata, che assegnando una menzione speciale, scriveva: “Il ragno è un
romanzo che consente di aggiungere ai molti nomi che hanno connotato al
femminile la narrativa italiana di oggi, quello di questa scrittrice lucana”.
Dopo dodici anni dall’ultima raccolta poetica, Anna Rivelli ritorna in
Parnaso con una silloge, che ora finalmente si è decisa
di affidare ai torchi. Trascelgo dal mazzetto la poesia La voce che scompone il buio, che non a caso è anche il titolo di una recentissima mostra di Giovanni Cafarelli,
circostanza interessante per la stretta relazione che qui si viene a stabilire
tra la poesia e la pittura, non soltanto per la coincidenza del titolo, ma
anche per il contenuto concettuale. Non sapremo mai – nemmeno loro
probabilmente sarebbero in grado di dirlo, per quell’intimo sodalizio
spirituale e artistico che li lega - quanto della poesia è stato trasfuso nei
quadri, e viceversa, ma è indubitabile che La voce che scompone il buio si
avvale di scambi delle diverse forme di creatività, in cui da tempo si cimenta
vittoriosamente Anna.
La voce che
scompone il buio/ nel chitone di pietra esterrefatto/ di
scale e avemaria,/ laddove il nulla è un angolo appoggiato/ al
parapetto nudo del sagrato…/s’arrampicava/ all’anima imbronciata/ nel punto in
cui la sera/ cadeva a piombo come una moneta/
e si faceva oblio.
Con il titolo siamo
già nel problema della lingua poetica di Anna; la quale possiede una
rara capacità di creare immagini attraverso l’accostamento inusitato di parole
che, componendosi, si arricchiscono di un significato ulteriore.
Così, ne La voce che scompone il buio, l’associazione della sfera uditiva con la sensazione
visiva opera la trasfigurazione delle forme sensoriali, per cui il buio, messo in rapporto con la voce,
è il silenzio assoluto, cioè il nulla, da cui si irraggia una
complessità di immagini. In tal modo il
sintagma assume un significato più ampio, più profondo, e le parole stesse si
caricano di un surplus di forza che
travalica il significato denotativo per attingere verità nascoste e svelare i
segreti rapporti tra le cose. Ma qual è questa voce che ha il potere di dissolvere
le tenebre, vincere il nulla? Fino a prova contraria, la voce non ha mai
dissolto il buio. Questo è vero, come appare incontrovertibile nella comune
esperienza; ma è anche vero che nei primi istanti della creazione la voce di
Dio dissolve le tenebre creando la luce; l’artista, per dirla con Konrad
Fiedler, nell’atto artistico ripete il fiat
di Dio , creando il mondo in una nuova forma
sub specie lucis. La quale forma non ripete la realtà, ma ne svela il
senso, il significato nascosto oltre la materia opaca del reale attraverso i
simboli.
Quella voce è dunque l’arte nella sua
accezione più ampia e omnicomprensiva delle diverse forme creative, l’arte e la
poesia che sono all’origine del processo storico dell’uscita dell’umanità dallo
stato di ferinità. Veramente, l’arte, cui si riferisce la Rivelli, è l’arte
visiva, come si capisce dai quadri attraverso i quali la poetessa ripercorre il
processo artistico e i connessi valori e significazioni che assumono nelle
varie epoche, dall’antichità, richiamata dal chitone delle statue che ornano i
templi pagani, al Medioevo, la cui arte è essenzialmente arta sacra, sino
all’esperienza tragica del Novecento,
rappresentato dal buio della notte al culmine dell’oscurità, che allude al
nulla. Coinvolta emotivamente nel
silenzio dell’oblio, la poetessa vorrebbe opporre il suono della poesia e
violare il signum arpocraticum per squarciare quel silenzio sacrale e
dissolversi e diventare parte del nulla.
E anch’io/ avrei voluto voce di
torrente/ per distrarre le dita del silenzio/ …/ perché il mio volo/ fosse
nulla tra
La dualità
luce-buio, metafora di straordinaria ricchezza semantica, allude non tanto alla doppia faccia della realtà, il
positivo e il negativo, secondo il senso
proprio che ha nell’origine gnostica e manichea, ma alla coincidenza di
concreto-astratto, finito e infinito, cioè il nulla.
Domina, in realtà, nella poesia di Rivelli
un pessimismo che non concede alcuna speranza di un oltre come luogo di
persistenza in aeternum, posizione
che è ribadita nella poesia dal titolo oraziano Scire nefas: dove ritorna il sentimento del tempo, del quale
sfuggono all’uomo il significato del suo inesorabile rotolare, il senso della
vita, la sua durata e il doloroso tributo, ignobile
balzello, che l’uomo paga per la colpa di esserci in un mondo che non è fatto, quale segno di privilegio,
solo per lui. Ma all’uomo è negato il diritto di sapere, ripete la poetessa con
Orazio.
Sotto i miei occhi/ che non
sanno il tempo/ che senso/ che misura/che ignobile balzello/ a questa vita/ che
non è sola/ nell’universo
Attenta ai fatti che segnano la nostra
epoca, alla Rivelli, pur non interessata all’aspetto religioso, le dimissioni
di papa Benedetto XVI appaiono come un fatto storico così fragorosamente
sconcertante (commiato … sparato nella
storia), preannunzio della fine di due millenni di storia, che si
estinguono ormai per consunzione (commiato
esangue). La poesia, 28 febbraio 2013,
prende titolo dalla data delle dimissioni del papa, quasi a voler sottolineare
l’eccezionalità dell’evento nel calendario della Storia.
Come commiato esangue/ di
mille anni/ sparato è nella storia/ il no di Benedetto.
Il
no di Benedetto diventa anche un motivo polemico nei confronti
della
dottrina della Chiesa, secondo cui l’elezione del papa di svolge sotto
l’assistenza dello Spirito Santo (che “vaga smarrito”, dice la poetessa
con dissacrante ironia per negare
l’esistenza stessa di Dio), ma è anche
pretesto per affermare il suo agnosticismo religioso e la negazione della
trascendenza risolvendosi il pensiero del
nulla in una specie di immanenza.
…uno smarrito/ Spirito che vaga/ lungo il
cammino incongruo/ del bestemmiato Cristo di quest’era
Anna nutre
un grande amore per la sua terra
e per il Sud, da cui non ha voluto emigrare,
ritenendo un tradimento abbandonarla per la ricerca di star meglio e
dissanguarla delle energie migliori, rappresentate dagli intellettuali.
È il motivo che svolge nella poesia Le tue finestre a Settentrione dedicata al poeta calabrese Giovanni
Chiellino,vissuto per lo più a Torino,
in cui immagina che il poeta, per un moto di nostalgia, col pensiero
ritorni alla sua Calabria e alla cultura greca, creatrice delle forme più alte
della civiltà: la filosofia, la tragedia, l’epica omerica e quella latina, che
Anna evoca attraverso interrogazioni e nomi
… laddove trascolora/ crivellata/ da un punto di
domanda./ Chi sei tu?/ Chi io?/ E chi la cerva Ifigenia,/ Didone la regina?/
Quale la posta/ al gioco di Nessuno,/ cosa la vita?
Questa
ricchezza culturale e spirituale che il Sud si porta in eredità intangibile
della sua tre volte millenaria civiltà, frutto di combinazione di incontri, di
incroci (“un chiasmo”) o di un dono (“lemma”) o disposizione naturale che ci
sintonizza con l’armonia del mondo “diapason”, polemicamente la poetessa la
oppone alla aridità umana del Nord ricco sì e superbo di benessere, ma di
umanità povera.
Nel traffico degli astri/ persino mute le armonie celesti/
alzano acre la polvere del tempo/ ed è spavento madido/ l’ambrosia del silenzio
Quell’inusitato
“traffico degli astri” è locuzione di grande efficacia ed effetto con i rimandi
letterari alla muta armonia celeste e
all’ambrosia del silenzio, versi che riprendono il motivo polemico Dei Sepolcri contro la società lombarda
del Settecento, anche allora dominata dalla smania di accumulare ricchezza e
spregiatrice dei valori della poesia, che “vince di mille secoli il silenzio”.
Una società che limita il suo orizzonte all’oggi e consuma tutte le possibilità
di vita nel presente, sembra dire la poetessa, non lascia di sé alcun ricordo e
perciò ha orrore della morte. Per questo proclama orgogliosamente
Ma
i poeti nascono al Sud.
Lo stesso motivo ritorna nella poesia Ma qui in cui Rivelli sembra riprendere
una polemica antieuropea che si va affermando in larghi strati della società,
che addebita – e non a torto - alla
politica economica dell’Unione Europea la causa della crisi che attanaglia in
particolare il Sud d’Italia, che continua a dissanguarsi delle forze dei
giovani, i quali, appena laureati o diplomati, fuggono al Nord o all’estero,
dimentichi del tacito giuramento di non abbandonare la propria terra, questo
Sud carico di storia e di memorie e dove
ancora si coltivano i valori dello spirito
Ma qui / … /…il cielo/ ha il
cuore/ e la memoria in pugno/ l’Europa/ è un buco nero che c’inghiotte/ i figli/ e le
speranze lente/ sui treni di settembre
Rivelli, come accennato, si è fatta testimone
e cantore delle grandi tragedie del nostro tempo, dalla strage dei bambini a
Beslan, dove si
è sparso il sangue innocente di 196 ragazzi, a quella di Nassirya, dai naufragi
di migranti nel Mediterraneo alla lotta dei Palestinesi per rivendicare il
diritto ad avere una patria.
Durissime realtà, che la Rivelli filtra
attraverso un linguaggio surreale capace di assorbire la crudezza degli eventi,
risolvendo il compianto in elegia. Così nella poesia A Beslan
I bambini a Beslan/ hanno fragili ali/ e corazze
robuste di fiamme/ …/ hanno il sonno/ dei fiori inodori/ dei ceri già spenti./
Madri e padri a Beslan/ sono cocci di vetro/ sopra il muro/ a difesa del campo/
un risucchio nel vuoto profondo/ e il delitto/ di restare al mondo
Da notare in questa poesia il registro
linguistico ricercato quando il discorso è sui bambini, la cui immagine viene
ricomposta non nella realtà di esserini straziati dalle bombe e dalle
sventagliate dei mitra, ma nel placido sonno della morte, evocato da termini
come fiori inodori, ceri spenti; mentre per
rappresentare la condizione morale e psicologica dei genitori, la poetessa usa un lessico comune che, anche attraverso i suoni
aspri e forti, oltre che con il valore semantico, mette in evidenza la
riduzione della loro esistenza a una realtà devitalizzata, frantumata e senza
centro. Rivelli si è misurata, come accennato, con i fatti più clamorosi (e scandalosi) della
storia contemporanea, con la sua sensibilità di donna e di poetessa; e tra
questi fatti certamente quello che ha più tenuto desta l’attenzione popolare è il fenomeno delle grandi migrazioni dal Sud
verso l’Italia e l’Europa, con le tante tragedie del mare.
E mi piace
proporre su questo tema non una poesia, ma un testo in prosa, che Anna ha
dettato nella immediatezza del naufragio a Lampedusa. È una
prosa che potrebbe essere facilmente riportata a misura metrica, sia per la
scelta stilistica, orientata verso un linguaggio surreale, di cui si è fatto
cenno, sia per il ritmo e l’intonazione. Lampedusa,
il titolo del breve testo, è una
prosa poetica.
Non sono corpi galleggianti esanimi, ma
scarpe a rendere lo spettacolo triste e desolante del naufragio di qualche
centinaia di persone. Le scarpe, simbolo del lungo e penoso viaggio
tragicamente interrotto, sono al posto degli uomini, di cui si ignora il nome e
quindi inesistenti; eppure erano uomini che tentavano disperatamente di
raggiungere quella spiaggia, frammento di Africa e d’Europa lambito dal mare
che in ogni tempo è stato luogo di incontri
di popoli sin dalle antiche civiltà, ed
oggi, sembra dire la nostra scrittrice, è diventato luogo di divieto e di
morte. Ma sarà una illusione pensare di poter fermare con leggi e sanzioni le
masse di perseguitati o di disperati fuggenti dalla guerra e dall’oppressione,
perché nell’uomo vi è una invincibile aspirazione alla felicità e alla libertà.
L’insistenza con la quale Rivelli nomina le
scarpe, sottolinea la tragedia nella tragedia: testimonianza dell’esistenza di
uomini in fuga verso la terra promessa mai raggiunta, sono rimaste le scarpe,
cioè, in parole povere, una cosa vile, insignificante, senza valore; chi le
portava non è mai esistito perché inabissandosi ha portato con sé il suo nome. Uomini
che sono passati sulla faccia della terra, la cui ultima azione è stata quella
di tentare di conquistare una possibilità di vita più degna, non lasciano
traccia della loro esistenza, perché non possono essere nominati, evocati nella
loro individualità.
Un giorno sarà necessario aprire una
finestra anche sull’impegno di “giornalista” del Quotidiano, un impegno nel
quale Rivelli porta tutta la verve polemica di uno spirito risentito per le
cose del mondo che, secondo lei, non vanno, o che vorrebbe che andassero
diversamente da come vanno. Raccolti e
pubblicati, i suoi contributi avrebbero
un valore documentario utile.
Mi rendo conto che queste mie note non sono
la classica presentazione di un libro di poesia, ma io non intendevo scrivere
una “presentazione”, per la quale sarebbe stato necessario attivare ben altra
strumentazione, bensì trascrivere una mia lettura delle poesie, e in questo
ambito vorrei che fosse considerato il mio esercizio. Peraltro,penso che chi s’arroga il diritto di parlare di un
libro, anziché parlare fumosamente in generale sulla poesia, sulle poetiche e
discettare su che cos’è la poesia e
altre amenità del genere, ha il dovere di stare umilmente addosso alla pagina,
in questa caso alla poesia.
Ho ritenuto perciò di soffermarmi su un
gruppo di poesie che mi sembravano emblematiche e quindi esemplificative della
lingua poetica di Anna R.G. Rivelli, una lingua che in prima battuta potrebbe
mettere a disagio il lettore ingenuo, un disagio dovuto al fatto che la
poetessa spesso si muove in atmosfere
surreali, per cui sfuggono, nella immediatezza, i reconditi significati allusi
dagli accostamenti di immagini inconsueti, e cogliere i sottili passaggi dalla
reminescenza letteraria o dotta alla attualizzazione dell’immagine.
Rivelli, infatti, è dotata di una
straordinaria immaginativa visionaria, che è all’origine del suo modo di
fondere immagine e senso delle parole, che vengono straniate dalle loro
proprietà semantiche, secondo la tecnica allusiva. E questa mi sembra la cifra
della sua lingua poetica.
Alla fine, però, devo confessare di temere
di non aver corrisposto alla fiducia riposta in me generosamente da Anna
Rivelli. A mia scusante potrei dire che un lettore di poesia è condizionato
anche dal rapporto che instaura, di volta in volta,con i testi; e le
sollecitazioni che ho ricevuto dalle poesie, di cui sono ancora caldo,mi hanno
fatto preferire questo tipo di lettura.
Sic cogitavi et scripsi.
kkkkk
Presentazione del romanzo di Anna Rivelli “Il ragno”
( Pantano di Pignola, 11 maggio 2012)
di Claudia Romano
Desidero anche
io, come le mie colleghe, ringraziare l’associazione che ci ospita nelle
persone della sua presidente e dell’amica e collega Angela, ringraziarle
soprattutto per l’opportunità che ci hanno offerto di soffermarci e di
riflettere su una storia coinvolgente ed emozionante.
La cosa che
più mi ha colpito di questa storia è l’alchimia, la chimica dei personaggi, il
loro modo di interagire, fra di loro e all’interno dei luoghi che li contengono
e che contengono le loro vite, un modo duro, aspro, fatto di gesti repressi, di
parole urlate ma anche di silenzi carichi di ostilità, irriguardosi, quasi.
L’equilibrio fra i personaggi sin dall’inizio si basa sostanzialmente su un
rapporto di forze contrastanti fra il ragno, il protagonista maschile, il padre
sordamente autoritario, fintamente perbene, e la sua preda, la madre di
Virginia, la protagonista della vicenda. La madre è la figura che, come dice
l’autrice, assurge allo stato di icona, “l’icona per quell’impegno preso con se
stesso (da parte del padre, ovviamente) di dover duplicare il suo capolavoro
anche con la figlia”. La madre, una donna sfinita, sfiorita anzi tempo, non
oppone alcuna resistenza a suo marito, si lascia supinamente avvolgere dalla
sua ragnatela e, a sua volta, diventa ella stessa il punto di partenza per una
nuova ragnatela, sostiene il ragno nella sua lenta, costante, graduale ma
inesorabile operazione soffocante.
Se il padre è
il ragno e la madre è la preda, Virginia è la vittima designata, la vergine
sacrificale, come suggerisce il suo nome, che solo sulla spinta di un
sentimento forte, che giungerà dalle misteriose profondità del tempo, riuscirà
a sollevare il capo. Virginia con la forza della disperazione, col coraggio che
proviene dal timore più profondo, più atavico, quello cioè di deludere chi ci
ha generati, deciderà di ribellarsi al suo destino, al destino di essere il
secondo, più perfetto, più completo capolavoro del padre-ragno. E si
allontanerà, taglierà definitivamente questo cordone ombelicale, si affrancherà
da un luogo soffocante che ospita persone soffocanti, tutte inconsapevolmente
sprofondate in un baratro emotivo. Ma quanto inconsapevolmente, mi chiedo, e me
lo chiedo soprattutto pensando alla madre, interrogandomi sul perché in nessun
momento della vicenda, nonostante tutto, nonostante si sia piegata a tutto per
il suo marito quasi padrone, neanche per una volta lei riesca a ritrovare
dentro di sé quella natura femminile accogliente, tiepida, che rende ogni donna
una madre, un luogo, una terra che accoglie e che consola.
Gli uomini,
tutti gli uomini della vicenda, o quasi, appaiono problematici, rappresentano
tutti figure negative; leggendo il libro li incontrerete, sarete in grado, come
è accaduto a me, di coglierne in un attimo il valore negativo, escludente, sostanzialmente
perdente. Vi imbatterete, oltre che nel padre, anche nel fratello di Virginia,
nel datore di lavoro, nel collega, nello pseudo - fidanzato. Ognuno di loro vi
apparirà chiuso in un mondo che esclude gli altri, che esclude il mondo
circostante, che innalza barriere, che rimane sordo e insensibile ai bisogni
altrui, ai bisogni e ai sogni soprattutto delle donne della storia. E ad un
certo punto poi, se farete attenzione, molta attenzione alle piccole cose, ai
dettagli, incontrerete una figura piccola, marginale, Carlo, che fa il
panettiere, un mestiere che consiste nel produrre del cibo, delle cose buone da
mangiare. Carlo fa un’attività direi femminile, quella semplice e profonda del
fare da mangiare. Fa delle cose buone, calde e dolci che ristorano, che
rallegrano le pause del lavoro, che saziano l’appetito del corpo, dandogli
sostegno. Durante quelle pause leggere, vuote di impegni e quasi vuote di
pensieri e di affanni, il tempo scivola veloce e facile. Per Virginia quelle
pause sono un sorso di aria fresca e leggera, un boccone di serenità.
E poi
incontrerete Poldo, ha un nome che fa sorridere, che fa tornare bambini, un
nome rotondo e anche lui lo è: è un peluche, morbido, un po’ arruffato, un cane
di pezza di razza indefinibile, il simbolo di una fanciullezza e di una
spensieratezza forse mai vissute da Virginia, schiacciate da un presente fatto
di dispiaceri, che mai però riescono ad assopire del tutto l’ironia della
protagonista, il suo desiderio di leggere la realtà, la sua realtà interiore,
con un occhio attento a cogliere il senso della sua vita, in modo se non
proprio positivo, quanto meno energico.
Ed è in questo
modo, con l’energia, sorretta dall’ironia e dal desiderio vivo e vibrante di
aspettarsi qualcosa di diverso, che Virginia procederà nel suo percorso di
vita, che la porterà ad accogliere l’inaspettato, ad accettare l’inaccettabile,
a dare il giusto peso all’imponderabile.
kkkkk
Elementi narrativi ne "il Ragno"
(presentazione Potenza, 26 marzo 2011 )
di Francesco Saverio Lioi
Già
altre volte ho avuto l’onore di
presentare opere letterarie di Anna
Rivelli. Allora si è trattato di poesia, abbiamo presentato infatti le sillogi
poetiche: Rosso stillante, Se il resto tace. Fu allora un piacere,
(la poesia di Anna scaturisce sempre da un profondo sentire le emozioni della
vita), è un onore oggi parlare di un’opera narrativa
complessa della quale è necessaria dare una lettura che vada al di là della
semplice fabula narrativa. Quando si
ha fra le mani uno scritto di Anna Rivelli si è sicuri di leggere uno scritto
fluido, ben organizzato con un sapiente uso della lingua italiana. La vicenda
accattivante, la scorrevolezza di dialoghi, la piacevolezza della scrittura
sono elementi che facilitano un discorso critico letterario su un’opera che
dona una lettura che nella narrativa moderna non capita spesso. Il limpido,
fluido uso della lingua è frutto anche di una linearità del tessuto narrativo
del romanzo, ma anche di un diuturno contatto con la migliore narrativa italiana,
quella narrativa che fa parte della categoria dei classici. La scrittura di
Anna Rivelli esce dai canoni commerciali e dal linguaggio singhiozzante quale
spesso si trova in tanta narrativa di oggi.
L’opera letteraria narrativa è frutto di due
fattori determinanti: l’autore e l’ambiente che vuole ritrarre; va inserita
nella realtà culturale e nella esperienza del proprio tempo, avvertita e
sperimentata in tutte le sue dimensioni per riflettere globalmente l’ambiente
che la produce. L’ambientazione di un’opera narrativa può essere storica, se è
inserita in un periodo storico, anche lontano nel tempo, o contemporanea allo
scrittore, il quale può ritrarre, ricreando, la vita che gli accade intorno.
Partendo dal vero, lo scrittore può ricostruire un portato narrativo che guarda
i personaggi scomponendoli psicanalisticamente e facendoli agire in situazioni
create dalla propria fantasia ma rispecchiando il verosimile della vita. La
vita che lo scrittore conduce, il suo portato culturale, le sue esperienze
difficilmente rimangono estranee all’opera letteraria. Da tutto questo l’estro
narrativo, che è ciò che crea l’opera d’arte, non è mai staccato. Chi
scrive rivolge la sua attenzione prima a
se stesso, alla sua cultura, poi agli
ambienti culturali che frequenta, al dialogo intrattenuto con le esperienze
culturali del tempo, con le poetiche generali che in quel periodo istradano le
produzioni letterarie e con la sua personale poetica, poi dà impulso alla sua
fantasia per creare la fabula che darà vita alla storia che si vuol narrare.
Il
narrato può essere storico, sociale, psicologico, d’ambientazione la più varia,
elemento essenziale dell’opera letteraria, del romanzo in particolare, è una
storia vissuta da qualcuno, da uno o più personaggi che si muovono nel contesto
narrativo. Costoro sono i protagonisti della storia, ma dietro questi vi sono
altri due elementi essenziali: l’autore della storia e il lettore.
Tra
autore e lettore deve sempre crearsi un rapporto di interdipendenza, perché se
riflettiamo sulla etimologia dei due termini, l’autore, dal lat. Augeo, nel senso di aumentare, deve
accrescere sempre l’interesse sulla sua opera per essere scelto dal lettore,
che deriva dal lat. Lego, che ha come
significato fondamentale quello di scegliere, e solo come traslato quello di
scegliere con lo sguardo e quindi leggere. L’autore deve, quindi, aumentare la
curiosità, l’ interesse del lettore per essere scelto e letto. È stato sempre
così, è stato Aristotele che nella sua Poetica
ci ha offerto un’acuta analisi psicologica di ciò che l’autore con la sua opera
deve esercitare sullo spettatore (il filosofo greco parla della tragedia) o
lettore che si trova di fronte un testo narrativo.
La
fabula del racconto, gli accadimenti
che condizionano i personaggi della storia devono suscitare nei lettori una
carica emotiva intensa che il filosofo chiama catarsi. Anna Rivelli ha
costruito una fabula che può
costituire un paradigma, un modello esemplare che può essere catartico per la
società di oggi, tempo della storia narrata, nei rapporti genitori-figli. La fabula della Rivelli entra profondamente
in contatto con un problema vitale e dibattuto nella moderna società e con il
vissuto di una donna impegnata nel dibattito esistenziale col suo essere donna
libera culturalmente. Fin dalle prime pagine del libro si respira un anelito di
libertà, proiettato nella protagonista della storia. Tutta la prima parte del
romanzo descrive la lotta che Virginia è costretta a sostenere per riscattare
la sua vita di ragazza irretita dal padre che cerca di impedirle qualsiasi
movimento, per essere padrona di se stessa, della sua giornata, per rivendicare
il diritto di lavorare, il diritto di uscire di casa perché possa essere
autonoma non solo come persona fisica, ma mentalmente, libera nei pensieri,
prima che nei movimenti. Il titolo del romanzo, che ad una lettura letterale
potrebbe far credere ad un libro su un animale non troppo amato, introduce il
lettore in una metafora che va avanti per tutto il racconto. Il ragno è il
padre egoista, autoritario, il padre padrone, esattamente come è padrone il
ragno delle prede che cattura con la sua rete. Se le prede che cattura il ragno
cadono incautamente nella rete, la preda che vuol catturare il ragno padre
lotta con tutte le sue forze, e alla fine eluderà quella rete sottile che le è
stata gettata attorno.
Questo
personaggio, o meglio tutti i personaggi creati dalla penna della Rivelli
si fanno seguire fino in fondo, fino alla fine della storia, dal trionfo del
punto focale della storia, che possiamo individuare nella frase di Virginia. La porta di Casa che si chiude alle spalle
è un inno alla libertà (p. 13) in poi l’interesse del lettore è in continuo
aumento.
Chiusa
la porta, rimangono chiusi in casa il padre tiranno, ragno che dal centro della
sua tela tira i fili, e la madre, grigia e senza vita. Due personaggi squallidi
che spariscono dalla storia come sparisce dalla storia della vita il modo
distorto di una educazione dei figli basata sulla costrizione, sulla pretesa di
costruire i figli a propria immagine e somiglianza, fuori dal tempo e dalla
realtà che giornalmente si vive. La metafora del ragno, animale che non
raccoglie simpatie, dal centro della sua tela crede di dominare il mondo,
perché riesce ad irretire piccole prede, coglie a pieno la situazione nella
quale viene a trovarsi la protagonista della storia narrata. Ed è proprio questa
metafora che va letta in profondità, che tiene avvinto il lettore, il quale
segue con compiacimento ed interesse le lotte della protagonista per sfuggire
alla sottile rete del ragno. Virginia sfugge alla rete risolvendo il dilemma se
ubbidire ai genitori e essere plasmata o spiegare le ali verso la libertà.
Non
ubbidire e non essere plasmata, ma spiegare le ali: questo vuole la sua libertà
di donna prima che di ragazza. È questo quanto avviene nell’Antigone di
Sofocle, tragedia nella quale Antigone si trova davanti al dilemma se ubbidire
ai suoi impulsi dell’animo che la spingevano a rispettare la morale naturale
oppure la legge imposta da chi comanda, paragonabile anche in questo caso ad un
ragno che vuole irretire tutti nella sua tela. L’eroina risolve il dilemma:
rispettare la morale naturale, secondo i moti del suo animo, che la spingono
verso una libertà di agire, spezzando la rete lanciata per avvolgerla. Questo è
anche il dilemma di Virginia, la protagonista del nostro romanzo: ubbidire alla
legge naturale che, nel rispetto delle regole, sancisce la libertà di ogni uomo
o donna nell’organizzare e programmare la propria vita ed opporsi ad una
assurda imposizione priva di qualsiasi norma. Antigone e Virginia scelgono la
libertà: Antigone andò incontro alla morte; Virginia alla vita e alla libertà.
Dal
punto di vista narratologico la nostra scrittrice, almeno apparentemente, ha
spezzato il triangolo narratore autore, protagonista della storia, lettore.
Essa si è nascosta dietro la protagonista, la quale non è oggetto del racconto,
ma è soggetto narrante e nello stesso tempo oggetto narrato. Il racconto,
infatti, è condotto in prima persona: è la protagonista Virginia che racconta
se stessa, che racconta la propria lotta contro le posizioni irrazionali di un
padre padrone, che ella, con una metafora ironica, paragona ad un ragno,
animale che certo non gode le simpatie di alcuno. Viene fuori un racconto
avvincente, una autoanalisi psicologica sconvolgente che Virginia fa su se
stessa, un cercare ed immaginare di aver trovato quell’amore che non ha trovato
in famiglia nelle apparizioni di quello che era stato il suo vero padre e che
non aveva avuto modo o occasione di conoscere. Le difficoltà, i dissapori, il
travaglio esistenziale di Virginia creano un personaggio da sogno, evanescente,
senza corpo, che si materializza nell’immaginazione, un’immaginazione che va al
di là del razionale, perché non si può
pretendere che al mondo tutto abbia una logica, ci sono cose che non ce l’hanno
e basta, eppure esistono e sono!
Un
inconscio desiderio di essere amata d’un amore che tutto dona e nulla chiede,
d’un amore grande quanto solo può essere quello di un padre, d’una carezza
sempre vagheggiata e mai avuta, di quella tenerezza di cui è capace l’affetto
di un padre, crea nella mente e nell’animo della protagonista una figura di
padre esistente solo nella sua mente, che avrebbe voluto al suo fianco nei
momenti difficili della vita. Lo vede nel sogno, nell’immaginazione così
intensa,che vien creduta realtà. Paolo Delgado, padre non più in vita e mai
conosciuto dalla protagonista della fabula, continua a vivere nell’inconscio,
nei pensieri di Virginia, e prima di essere padre, è l’uomo dei suoi pensieri,
l’uomo della sua vita, l’uomo che lei si è costruito fino al punto da non
distinguere più l’immaginazione dalla realtà.
Quale la chiave di lettura del romanzo? La
psicanalisi, un ambiente reale di vita di una ragazza costretta a vedere le
proprie aspirazioni coartate da un padre possessivo che vede nella donna ancora
un oggetto, l’emancipazione della donna che fatica ad uscire dal nido? Senza
dubbio queste ed altre sono le problematiche che emergono dalla lettura di
questa fabula che presenta un intreccio ricco di accadimenti dai quali la
protagonista si vede circondata e che provocano sconvolgenti emozioni.
Con
la tecnica dell’autoraccontarsi del personaggio protagonista, l’autrice, Anna
Rivelli, si eclissa, scompare, sembra quasi che si faccia condurre per mano dal
racconto di Virginia, che determina i fatti. L’autrice così è estranea alla storia, non
interviene ne con riflessioni, né con descrizioni sia di personaggi che di
luoghi. Questi vengono ad essere una sola cosa con il personaggio e l’autrice
sembra raccogliere fatti, dialoghi e luoghi quasi scattasse istantanee e
fissasse tutto sulla carta da stampare. La descrizione del terrazzino della
casa che Virginia si crea nell’immaginazione è un’istantanea che suscita
intense emozioni quali sono suscitate da un paesaggio immaginato: è
un’istantanea fotografica creata dal racconto di chi ha vissuto intensamente
quelle emozioni, e la descrizione diventa poesia:
Quel terrazzino è un cucchiaio di
sereno, un boccone di spensierata innocenza (p. 117)
La
presenza di Paolo, uomo evanescente, impalpabile, ombra sfuggente, eterea, lo
rende un paradeisos edenico fuori di
ogni logica e realtà. Virginia ha un innaturarsi simile a quello di Saffo
dell’Ode sublime.
Il
raccontarsi di Virginia inizia con le
riflessioni che fa sulla madre « Mia madre….» dalle quali viene fuori un ambiente
gretto, una famiglia nella quale vige ancora la legge del padre padrone,
secondo una concezione di vita fuori del tempo. Virginia una ragazza dinamica,
che cerca nel lavoro fuori casa il
riscatto dall’oppressione familiare, non accetta passivamente la logica feroce
del padre padrone che cerca di tessere intorno a lei una ragnatela per
irretirla, per plagiarla nella mente e nel corpo.
Un
tratto caratteristico del romanzo della Rivelli è l’uso della persona loquens,
cioè il personaggio protagonista che racconta in prima persona la sua vicenda
sia essa gioiosa o triste, che espone le proprie idee sui comportamenti che
tengono verso di lei il padre o il fratello, sui quali esprime giudizi ironici
quando li nomina dando loro dell’eccellenza per voler significare la sua
prepotenza sulla madre, mosca intrappolata, dalla quale esige un rispetto
riverenziale. L’artificio della persona loquens,
che può essere un personaggio fittizio o anche reale della vita, conviene
particolarmente a mascherare l’identità dell’autore. In questo modo la
descrizione dell’ambiente familiare della protagonista è visto dal di dentro, è
raccontata dai fatti e e dalle parole che da questi scaturiscono.
Il cerchio di solitudine in cui viene a
trovarsi Virginia, l’ineluttabile spirale di follia del padre, la passiva
sottomissione della madre, mosca intrappolata, la protervia del fratello, la
comparsa di un uomo immaginato, la scoperta di una paternità negata e perduta
determinano una materia narrativa ed una scrittura esemplare consegnano al
lettore una figura di donna maestosamente incisa dentro il silenzio della
storia, eroina e vittima sacrificale di quella concezione di vita che ha visto
la donna come un essere senz’anima, come la vedevano gli antichi filosofi greci,
senza capacità di intendere e di volere.
Un
paio d’anni fa ebbi l’onore di presentare un altro romanzo che aveva come linea
portante la condizione della donna: La donna d’angolo di Francesca Sassano.
Ambienti diversi, situazioni diverse, civiltà diverse, ma un solo problema: le
difficoltà d’essere donna. Non è possibile in questa sede fare un discorso in
parallelo, ma in tutti e due i romanzi vi è il riscatto della donna che trionfa
nel suo essere donna, portatrice di quel sentimento che si chiama amore.
La
fabula del romanzo della Rivelli è frutto di fantasia, il problema che solleva,
però, è reale, antico, un problema antico quanto il mondo, riguarda il mondo
occidentale e il mondo orientale: il nostro mondo, che definiamo civile e che
ancora dibatte i problemi della donna. L’emancipazione della donna deve ancora
fare molta strada. Ha visto dibattiti parlamentari, il Parlamento Italiano ha
approvato importanti leggi. Le tappe più importanti della parità uomo – donna
sono state:
1
– alla fine della prima guerra mondiale la donna ottenne l’abolizione
dell’autorizzazione maritale e l’ammissione ai pubblici uffici con l’esclusione
della Magistratura;
2
– nel secondo dopoguerra la donna ottenne il diritto di voto attivo e passivo;
la Costituzione del 48 sancì la parificazione formale con l’uomo, anche se
saranno necessarie leggi successive per rendere sostanzialmente efficace il
principio generale.
Ma
non basta la legge a porre la donna sullo stesso piano dell’uomo, non basta la
Costituzione della Repubblica che stabilisce che tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale senza distinzione di sesso; quello che occorre cambiare è la
testa degli uomini, i quali soggiacciono alla trama sottile ed inconscia di
antichi timori, di secolari tradizioni, di radicati pregiudizi. Lo dimostra la
fabula del romanzo
di Anna Rivelli. Un uomo, padre padrone, tira
sempre in ballo la sua presunta superiorità dell’essere maschio, pervasa di
misoginia. Il racconto della Rivelli è senza dubbio acronico per le
problematiche che presenta, possiede un’acronia che spazia dalla realtà
all’immaginazione, alla finzione, che ha permesso alla scrittrice di plasmare
una storia leggera, suggestiva, accattivante. La finzione tinge di poesia
leggera i fatti raccontati. Ogni frase, ogni parola quando portano nel racconto
la finzione diventano poesia che dà al racconto uno straniamento dalla realtà
che appare in una prospettiva diversa da una comune percezione. Virginia parte
dal racconto della vita reale, vissuta, dalle difficoltà che giornalmente deve
superare per rifugiarsi in un mondo metareale, in una finzione nella quale
vive quella vita di libertà sempre
sognata, vive quell’amore che solo un padre può dare, quel padre che lei
immagina quale sarebbe potuto essere per lei, figlia inseguita per tutta la
vita e mai raggiunta. L’immagine di quest’uomo, che vive nella finzione di
Virginia, è eterea, evanescente, un’ombra che diventa materia impalpabile. Il
dialogo sul terrazzo di casa durante la messa a dimora delle piantine sembra
reale, con un uomo in carne e ossa, racconta Virginia : Lo guardo, ma è come se non lo vedessi, come se il suo corpo venisse
fuori dai suoi gesti, oppure Si
lascia inghiottire liquido dalla scala come un sorso freschissimo in un caldo
d’estate. Paolo è senza un volto che
io riesca a ricordare, senza mani che mi abbiano sfiorato. Io mi ritrovo coperta come se la trapunta
leggera fosse stata rimboccata, dall’altra parte del letto è stato
rifatto…Paolo non c’è.
Quell’immagine
paterna, dagli occhi castani, più o meno dello stesso tono dei
miei, si materializza nella finzione, ma rimane dolce fantasma quando la
realtà si staglia davanti con tutta la sua tragicità che fa dire alla persona
narrante, a Virginia cioè:
Lo
schiaffo e i pugni mi bruciano nell’anima. Sono gli schiaffi e i pugni di
quel padre ragno che spingono la ragazza a crearsi una felicità in un mondo
acronico, metareale. Un mondo creato dalla sua immaginazione, dai suoi sogni,
dal suo desiderio di ricevere una carezza che le era stata negata dalla vita.
kkkkk
Prefazione per "L'immanenza"
di Rocco Brancati
Penso all'"Adamo caduto" di padre Serafino della Salandra. Ascolto le parole di un Dio che soffre:
...Ah, che pur troppo t'amo,
Troppo ti stimo, e spregio,
Adam,delitia mia,
Adam riposo de le mie fatiche.
Che farò dunque? haverò tanto core
D'ambiduo discacciarti?
Potrò soffrirlo?
Vedo una donna trasformarsi in una statua di marmo e vagare sulle strade del mondo; scorgo un volto femminile, Hodighitria (Colei che indica la via), conteso tra salvezza e disperazione, spirito peregrino come la "Gatta cenerentola" di Giovanbattista Basile.
Il suo silenzio è infranto da un certo "ulissismo" con quel tanto di eroico e di spirituale proprio della Deisis ( la Vergine orante). Ma, in mezzo al colonnato di San Pietro, c'è ancora Juan Caramuel pronto a bastonare quanti hanno dimenticato il fascino di un mondo dove l'arte riusciva a farsi spazio nel cuore degli uomini divenendo essa stessa preghiera.
Tormentata dall'aegritudo e dall'accidia "funesta quaedam pestis animi" ecco che la statua Glycofilousa (Madonna della tenerezza) si trasforma in un guerriero circondato da nemici crudeli e macchine da guerra; solo e senza scampo, non gli resta che la pena infinita della sconfitta.
Quando il pensiero ritorna pietoso, le parole non possono essere udite e comprese perchè tremanti e fioche; solo Cristo o la morte potrebbero liberarci. La fenice o il basilisco torneranno a risorgere dalle proprie ceneri ma l'eternità è lontana e il mondo diventa elegia e compianto per anime sole.
Che cos'è dunque questo viaggio di Anna Rivelli? Una semplice metafora o addirittura l'allegoria di un itinerario interiore tormentoso e necessario, di una guerra mossa a se stessa con le armi della ragione e della fede? E' la meta di una leggenda o piuttosto sono pagine di una lettera a Dionisio che sfuggono ad una interpretazione unilaterale?
In "L'immanenza" Anna Rivelli, da viaggiatrice colta, prima di partire legge Virgilio; si accompagna con i geni ora malinconici e pazzi altri loquaci ed entusiasti: uno solo non basterebbe e sarebbe insopportabile. Alla fine la scelta cade su un compagno-ombra, uomo dolcissimo e lieto, silenzioso, testimone prezioso per un itinerario memorabile. Come in una fiaba gotica o in un romanzo di formazione settecentesco, incontrano un canuto pastore che li esorta a rinunciare all'impresa; e supplica, addirittura li atterrisce con racconti di solitudini inaccessibili.
"Ex prohibitione cupiditas": ecco allora che gli elementi narrativi e poetici si scaricano in forma di lampi. Il viaggio è cominciato, il pensiero è rapidissimo, in un batter d'occhio ci conduce ad una meta prima che ce ne accorgiamo.
Rocco Brancati (2003)
kkkkk
da "Il Quotidiano della Basilicata" del 30 marzo 2004
da "La Gazzetta del Mezzogiorno"
del 27 febbraio 2004
da "La Nuova Basilicata" del 25 febbraio2004
da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 30 luglio 2003
Dopo una prima, veloce lettura mi sono venute in mente le parole di un linguista francese, Antoine Meillet: “I poeti sono da un lato obbligati a conformarsi in una certa misura all’uso corrente per essere capiti, ma dall’altro lato devono scostarsene, perché la loro lingua si distingua da quella dell’uso corrente: essi si rivolgono a un pubblico preparato a comprendere questa lingua speciale, ma anche rassegnato ad ammirare ciò che non riesce a capire”.
Il Meillet è uno storico della lingua greca e vuole delineare la lingua speciale della poesia greca. Noi possiamo fare la stessa osservazione sui testi della Rivelli, che certo non sono di facile intendimento. La poesia della Rivelli parte da lontano, essa possiede una stratificazione culturale solida, ha come sottofondo la tecnica dell’arte allusiva che rimanda il lettore da un poeta all’altro, da Catullo ad Orazio, da Leopardi a Montale, agli ermetici. Cogliere questo filo di Arianna non è facile: solo un orecchio affinato e un gusto poetico ipersensibile riescono a collegare ciò che lega i capi del filo; il poeta che è alla base e la trasformazione della Rivelli, la quale ha fatto sua l’immagine del poeta che fa da sottofondo. Così troviamo nell’immaginario poetico della Rivelli echi leopardiani, ungarettiani, montaliani, catulliani, oraziani. La tecnica della poesia allusiva sottende una raffinata cultura letteraria che produce una poesia dotta, per intenditori, che sanno cogliere i sottili passaggi dalla riminiscenza dotta all’attualizzazione e personalizzazione dell’immagine poetica. Così la Rivelli con la sua poesia accresce la vitalità dell’immagine antica, perché in ogni epoca la poesia non può essere coeva e vera se non è contemporanea al sentimento di chi la scrive e la sente. Uno degli elementi di contemporaneità della poesia è senza dubbio il linguaggio che è mezzo di espressione della vita realisticamente intesa. Nel nostro caso il linguaggio scarno, la parola essenziale sembra tanto svolgere una funzione apotropaica, vuole con esso l’autrice scacciare da sé quel fumentus veternus sempre alluso alla dicotomia luce-buio, che rappresenta la doppia faccia della realtà come si può vedere in molti frammenti.
Spesso la poesia come quella della Rivelli non consuma nemmeno la lingua d’uso, ma è caratterizzata dallo straniamento della lingua rispetto alla norma d’uso, in quanto la straordinarietà rende la lingua poetica molto spesso criptica quasi che il poeta voglia tenere per sé le intuizioni poetiche. Questo è dato da parole dotte e dall’uso di figure retoriche. La poesia di Anna Rivelli non dà al linguaggio una forma diacronicamente elaborata, ma lo strania dalle sue proprietà semantiche.
Tutti i testi della Rivelli sono una meditazione sulla vita, meditazione costituita da un discorso spezzato e interrotto, da un linguaggio tormentato ed impervio. In tutti i frammenti lirici vi è un espressionismo, una cifra stilistica che avvicina la poesia della Rivelli a tanta parte della poesia del ‘900.
Francesco Saverio Lioi (2002)
da"La Gazzetta del Mezzogiorno" luglio 2000
Prefazione di Luciano Luisi per il volume di poesie "Rosso stillante")
Dopo sette anni da una piccola silloge d’esordio (“Irriverenti geometrie” del 1992), arricchita da varie esperienze di scrittura creativa e saggistica, Anna R.G. Rivelli torna alla poesia con una raccolta più densa che meglio ne definisce la fisionomia e più compiutamente la rivela. Ed è davvero sorprendente constatare con quale immediatezza i suoi versi (ben al di là di quanto ogni poesia sia sempre biografia e confessione) ci conducano senza cortine protettive, ma anzi con l’innocenza della verità, nei meandri del suo spirito, aperto incondizionatmente alla vita, pronto a confrontarsi con il suo mistero. Ed è un confronto che, nonostante la “gioia” che la vita in se stessa le dà (la gioia dell’esistere), qualche volta le fa piegare la testa, stremata. Ma è solo il prezzo, il minimo prezzo del vivere perché nonostante dica nella poesia di chiusura del suo primo libretto “Io che non sono torre / che non crolla” e “precario ho l’equilibrio”, ora, sette anni dopo (tanti, dunque, per la sua ancor giovane età) in questo “Rosso stillante”, con una più consapevole capacità di guidare la vita e accettarla così com’è (sembrandole persino ingiusto giudicarla) per ben due volte la sua visione concretamente positiva fa appello al sole, simbolo fin troppo esplicito: “ìl sole / trafiggerà / le tenebre più nere”, e altrove: “ma sul mio nero / esplode il sole / si spalanca il cielo”.
Cè dunque come un sentimento di gratitudine, che è un sentimento religioso, nonosante il suo non aver più voglia “di attendere risposte”, nonostante “ questo mondo strano / che Dio / che Dio l’Onmpotente/non ci sa spiegare” che avvolge persone e cose: una gratitudine che si fa tenerezza. E si veda l’attacco dolcissimo della poesia a Daniele, un suo figlio: “Cuccìolo d’uomo/bambino mio/dentro il mio letto/rannicchiato e pago/come se il mondo/l’unìverso intero /capitolasse/ sopra il mio seno. ..”. Qui c’è quella gioia alla quale alludevo, e che si fa vibrante, densa, nelle poesie d’amore come in “Donna” (dove c’è un languore tutto femminile) o nella “Dedicata a te” che così si conclude: “... in cui nuotava il mio cuore/e si bagnava/e beveva d'un sorso/la gioia/di averti ancora/di averti vicino/di averti”. E quel verso finale, con la sua forza perentoria, è da solo un canto d’amore. E femminilmente imbronciata (colgo l’aggettivo dal testo) è questa poesia che mi sembra fra le più felicemente risolte: “Ai pensieri/che imbronciano le linee al tuo profilo/vorrei legare un sasso/e sprofondarli/giù/dove il ricordo/ non è che un' ombra vana/che si dilegua in fretta/come Didone/nel bosco dei suicidi”.
Anche il paesaggio, dove interviene, è guardato come una persona, con gli stessi stati d’animo e lo stesso affetto, fino a giungere ad una sorta di identificazione: “Vorrei essere te/paese che neanche/sei mio/ accartocciato/nel fumo. . .”. Quell' “accartocciato” fa pensare ad un cappotto che uno si stringe sulle spalle. E analogamente “umano” il verbo “rannicchiarsi” che la Rivelli usa in “Sera”. “Cala il sipario/sul giorno che scompare/e si rannicchia il gelo/sopra il vetro...”. Notate: si rannicchia come il suo bambino! È il modo della poetessa di abbracciare con lo stesso cuore le persone care, le cose e il mondo.
Una poesia apparentemente facile, spontanea quella che ora qui leggiamo, grazie anche al dono faro della chiarezza, ma non semplice: poesia che ha filtrato e fatte proprie tutte le esperienze novecentesche riportate, fortunatamente, senza subire nè il fascino nè tanto meno l’intimidazione degli “ismi”, delle mode imperanti, alla propria natura che sa stemperare in una sorta di quieta accettazione (propria di chi sa dire senza angoscia “gli anni/che non sono miei” e “stringo la vita/che so non mi appartiene”)
anche il dolore e la morte così presenti in questi versi.
Luciano Luisi (1999)
da "La Repubblica" del 28 settembre 1999
da "La Nuova Basilicata" del 15 ottobre 1999
(Postfazione di Ubaldo Giacomucci per il volume di poesie "Rosso stillante")
… questo testo poetico è il felice risultato di un personale percorso stilistico e di uno scavo sulla parola, di una ricerca linguistica e simbolica condotta lavorando sull’essenzialità dell’espressione e sull’allusività del testo, che permette l’elaborazione di simboli di notevole profondità.
La forma poetica, quindi, oltre a possedere una spiccata originalità di impostazione, elabora la forza descrittiva delle immagini, con un linguaggio moderno dovuto al lessico quotidiano e comunicativo, che valorizza efficacemente l’itinerario espressivo…
Ubaldo Giacomucci 1999da "La gazzetta di Basilicata" 17 giugno 1999
(Postfazione dell'Editore Maremmi per il volume di racconti "Reportage di un unico grido")
Forse nessun altro titolo sarebbe stato più appropriato per questa breve raccolta di racconti di Anna Rivelli. Il suo grido è come reazione istintiva, è l’Ur-Schrei dei tedeschi, l’urlo primordiale, antico come l’uomo, che esprime la complessità dei suoi sentimenti di paura, o, meglio, di incertezza, di smarrimento e di angoscia, cose diverse –come direbbe Kierkegard – dalla paura che è, invece, determinata dal nulla. E’ come Il grido di Munch che non si esaurisce in se stesso, ma che nasce piuttosto dalla prospettiva lunga e obliqua del ponte che attraversa in verticale i molteplici aspetti della vita dell’uomo; è angoscia esistenziale, è vertigine, è guardare nell’abisso di sé. “Ho sentito questo grande grido venire da tutta la natura” dice il pittore.
Sulla lunghezza allucinante di questo ponte Anna Rivelli osserva i variegati paesaggi della vita dove il grido è pianto, ma anche riso, dolore e ironia: l’uomo nella complessità drammatica e grottesca del suo esistere.
L’Editore (1996)
(Prefazione di Arduino Rossi per il volume di poesie "Irriverenti geometrie")
Anna Rivelli è una poetessa in equilibrio tra stili, tecniche, conoscenze dotte, ironia.
Nelle sue liriche il paesaggio prende sembianze e modi umani (Lega i capelli al giorno/l'orizzonte...). Il suo spirito veleggia sopra un mondo naturale dove l'Io, con la sua soggettività, spazia, si amplia, si confonde e quasi si smarrisce (...)
Quindi ella è un'abile dominatrice di intimi sentimenti, che si dilatano tutt'attorno a Lei, un Lei però impersonale, quasi oggettivo, privo di quella presenza ossessiva dei versi dei narcisisti e degli esibizionisti.
Rivelli si mette in disparte, suggerisce, bisbiglia la sua concezione del Creato sia visibile che invisibile. Propone forse il superamento della Tesi e dell'Antitesi con una Sintesi inglobante ogni cosa?
Sicuramente si avvicina a una "fede" che si spinge verso il mare dell'oblio, il nulla. Quale tipo di infinito vuoto è il suo? L'Universo, con le sue leggi e i suoi flussi, scorre nel tempo verso il Nirvana o la morte del tempo?
E' una domanda alla quale non si può dare risposta, l'unica certezza sta nel presente e in un ricordare malinconico, ma ancora vivo con la concretezza dell'oggi (Non è passato il tempo/...lezioni della vita/ come nei banchi...).
Altro fattore fondamentale, però fantasioso, è nel far vivere ciò che non visse mai (Legga pure il giornale/abortito Pinocchio/... nella cronaca muore, senza fiaba oramai ).
L'attuale, le rimembranze e il possibile mai realizzato stanno alla base di un dolce languore liquido ed evanescente.
Ciò che prevale è l'esistenza e il dolore, la forza della violenza contro gli ultimi, i piccoli (AI BAMBINI UCCISI: Angeli non sprofondati/ ai bottoni di lutto... restate soli/a sgocciolar vita rimpianta...).
C'è pietà nelle poesie di Rivelli, ma non pietismo indecoroso: i drammi umani e gli orrori sono descritti, sempre descritti con quel distacco di chi non vuol giudicare, ma principalmente capire ciò che non si può comprendere: la sofferenza, la fine delle speranze, il corso degli astri e il perché di tanto patir tra i mortali. Sono i soliti dilemmi della poetica classica, tipici di Foscolo, Leopardi, Quasimodo, Montale, ecc..., ma senza la monotona ripetizione pseudo-filosofica di tanti, troppi, intellettuali verseggiatori, che si "lagnano" continuamente per la condizione umana, misera e vana, scopiazzando idee ai grandi per sentirsi grandi. Qui abbiamo una dimensione tutta personale: nulla è imitato, ma le lezioni dei Maestri sono state ben assimilate.
Poesia per Rivelli non è solo espressione di pulsioni, istinti, vigore e forza, fantasie oniriche, cordialità. Ella sa dare e rigenerare una sua realtà, profonda, delicata, sottile quanto un concetto avvolto da una nebbia crepuscolare, o di alba rinnovatrice. Sa pure donarci quei momenti di silenzio, quando la pace cala dentro, sino al fondo dell'anima (Non togliermi, ti prego, il mio silenzio/ pieno di te...). Che c'è di meglio della contemplazione, o del sentirsi al centro di un amore platonico, idealizzato? (seduta una madonna/ mi sento/e tu il devoto/ in ginocchio alla mia vita...).
Comunque solo i lettori più attenti e sensibili percepiranno la morbida bellezza dei versi descrittivi di luoghi e ambienti (...dove verde è tutto/ ...narra l'erba/di storie del passato/ ...policromie sdrucite/ ...l'incanto palpita/ ...crolla il sole sull'acqua...).
Non ci sono astruse costruzioni matematiche o alogiche, oppure di ricerca linguistica, anche di gusto caduco, accademico: solo un cordiale suggerire di stati d'animo, da innamorata di ciò che è bello, sfugge da queste pagine.
Non posso che consigliare ai lettori di immergersi, di soffermarsi senza remore in questa lettura, certamente piacevole (come dovrebbe essere sempre la poesia), ma "riservata" unicamente a chi è già conoscitore di tecniche e scaltrezze celate, menti capaci di differenziare tra ciò che è arte da ciò che è pura applicazione di regole, apprese con lo studio.
Arduino Rossi (1992)