25 NOVEMBRE
ACCANTO A ME
di Anna R. G. Rivelli
Credevo che fosse una
mamma. La mamma di un compagno del mio figlio più piccolo. Mamma come me, come
tante. Donna soprattutto, con i suoi desideri, con le sue aspirazioni… con le
sue gioie che erano nella famiglia, ma anche fuori, nel suo lavoro, nelle sue
amicizie… Credevo che avesse una vita normale, fatta di alti e bassi come la
mia, di fatica e di soddisfazioni. La vita di tutti, insomma. Così credevo. E
invece…
Suo marito era
mellifluo quando parlava del rapporto di coppia. All’inizio sembrava
innamoratissimo, un po’ faceva tenerezza, ma era sdolcinato, troppo. Amore qua,
amore là, tesoro su, tesoro giù… aveva queste parole sempre in bocca, ma io non
capivo perché lei avesse sempre lo sguardo di un cane randagio quando lo
guardava, due occhi che esprimevano attesa, ma un’attesa scoraggiata e delusa,
un affanno di vivere forse, di correre dietro alla vita che si perdeva. Non lo
capivo.
Poi un giorno… Era uno
di quei giorni plumbei in cui gli ombrelli all'uscita di scuola fanno fatica a
starci tutti, aperti e sgocciolanti, variopinti nella luce nebbiosa e densa. Lei
sotto l’ombrello aveva gli occhiali scuri ed uno sbuffo violetto che smarginava
dalla lente destra. Non era ombretto però.
Lo compresi allora quello sguardo da cane. Compresi che la sua vita non
era la mia e non era quella di tutte le altre mamme là avanti. A dire il vero
non era neanche vita la sua.
“Come faccio?” mi
disse un giorno lasciando quegli occhi di cane riempirsi di lacrime sulla testa
del figlio. “Dove vado? Come vivo? E
lui? Sarà dalla mia parte? Resterà con me?”
Non lo ha trovato lei il coraggio di riprendersi la sua vita;
non ce l’ha fatta. Ci siamo perse di vista; lei non poteva avere amiche e la
scuola dei figli neanche dura eterna, non c’era più la scusa per uscire. Se mi
viene in mente la immagino in quella sua casa, murata come Raperonzolo, con i
suoi lunghi capelli rossi troppo corti da calare dalla torre perché un principe
la salvi. Qualche volta la incrocio per strada. Il marito la tiene per mano. Sono una coppia normale. Ma
lei ha quello sguardo da cane perduto nel suono infernale delle stesse parole “Amore,
amore… tesoro, tesoro…”
LILLINO MEMOLI, ZINGARO E RE
Da sempre, per tutti, è stato Lillino. Lillino Memoli:
inconsueto ed infantile vezzeggiativo per una imponente figura di uomo, suono
trillante, scampanellio di un nome che era onomatopea di un vivere leggiadro,
di un carpe diem declinato in paradosso fino all’ultima ora. E se l’ultima ora
è arrivata, solo qualche giorno fa, attesa eppure così improvvisa e traditrice,
se l’ultima ora è arrivata – dicevamo - non è finito il tempo di quest’uomo che
per Potenza e per la Basilicata è stato un tempo moltiplicato, uno
straordinario percorso di crescita, un balzo in avanti, un tuffo nello stupefacente
mondo senza confini dell’arte.
La Galleria Memoli Arte Contemporanea inaugurò la sua
attività nei primi anni 80, poco dopo il rovinoso terremoto che colpì Irpinia e
Basilicata; fu questo, tra pochi altri, un nuovo inizio, una speranza per una
terra ferita da cui subito molti pensarono di andare via. Da allora, e sono
passati quasi trentacinque anni, l’attività della galleria non solo non è mai
cessata, ma, di più, la Memoli Arte è stata un punto di riferimento culturale
fortissimo, oltre che sala espositiva in cui si sono avvicendati con le loro
opere artisti di fama internazionale quali, tanto per citarne alcuni, Remo
Brindisi, Ercole Pignatelli, Franco Valente, Martin Bradley, Franco Marrocco,
Nino Mustica, Maurizio Galimberti. Spesso cenacolo di artisti e di
intellettuali, la Galleria ha avuto il merito di non poco conto di essere stata
una sorta di vivaio per i giovani artisti lucani dell’epoca, quelli che oggi
costituiscono già un capitolo importante della storia dell’arte della
Basilicata e che in quegli anni avrebbero forse vissuto quella marginalità così
connaturata alla nostra regione se non fossero stati posti in dialogo e
proiettati nel più vasto panorama internazionale. Ma la Memoli Arte non è stata
soltanto Potenza; ha spaziato con la sua attività a Maratea per moltissimi
anni, a Busto Arsizio, a Milano, a Matera; ha intercettato un pubblico vasto,
ha iniziato al bello dell’arte almeno due generazioni, incentivando un
collezionismo forse prima inesistente in città. Certo era un mercante Lillino,
e del mercante aveva il parlare netto, il pragmatismo scanzonato, il sorriso
accattivante ed il suadente piglio malandrino che è nello sguardo di chi sa
essere zingaro e re senza cambiare pelle né cuore mai. Perciò di lui assente non
si può parlare se non come se fosse ancora
qui, a guardarci tutti, irruente in privato, schivo e quasi del tutto defilato
in pubblico; sarebbe un torto per lui
un elogio al di sopra delle righe, un incensare vano che lo rendesse morto
davvero. “Da questa città ho avuto tanto
– ha detto ai familiari e agli amici più cari quando già la malattia lo
consumava – da questa regione ho avuto
tanto; mi hanno consentito di vivere facendo quello che mi piaceva fare. Perciò
ora è venuto il momento di restituire tutto”. Queste sono state le sue
volontà ultime, un progetto a cui febbrilmente aveva preso a lavorare quando
ancora diceva che ce l’avrebbe fatta, per guadagnare giorni alla vita ed
ingannare la morte che, come lui diceva, voleva lo trovasse vivo. Così alla sua
famiglia e ai suoi amici ha chiesto l’impegno di una fondazione finalizzata a
dotare la città di uno straordinario museo di arte contemporanea e questo è
stato il suo scopo fino all’ultimo giorno. Perché Luigi (Lillino) Memoli lo
aveva capito che alla sua partenza mai più un rosso sarebbe stato rosso in
questa città, né mai più un giallo, un azzurro, un verde, quando la luce dei
suoi occhi, profondamente e sinceramente innamorati della bellezza, si fosse
affievolita a questo mondo. “È venuto il momento di restituire
tutto” ha detto; e così ha deciso di restituirci i
colori. Ma Lillino era scaltro mercante: il prezzo che ha chiesto in cambio è
stato l’eternità. Il Museo di Arte Contemporanea Luigi Memoli si farà. E lui
sarà vivo per sempre.
Anna R.G.
Rivelli
da Il Roma
13/11/2017
PREMIO LETTERARIO BEPPE SALVIA
PREMIO LETTERARIO BEPPE SALVIA: I EDIZIONE -2018
Il Premio, dedicato al poeta Beppe Salvia, si articola in due parti:
a)Premio Letterario Beppe Salvia Opera Prima.
b)Premio Letterario Beppe Salvia alla Carriera.
REGOLAMENTO
Art. 1 – Il Movimento Culturale Spiragli, in collaborazione con LietoColle, bandisce la prima edizione del “PREMIO LETTERARIO BEPPE SALVIA”.
Art. 2 – Possono partecipare al Premio le opere prime di poesia di autori/autrici che alla data di partecipazione al bando non abbiano superato il trentacinquesimo anno di età, scritte in lingua italiana e non premiate precedentemente in altri concorsi.
Art. 3 – La Giuria tecnica selezionerà, tra tutte le opere pervenute, quelle dei tre (3) finalisti, ai quali verrà data tempestiva comunicazione tramite email.
Art. 4 – La Giura tecnica sarà composta da: Andrea Di Consoli, Claudio Damiani, Marco Lodoli, Anna R.G. Rivelli, Gabriella Sica, Emanuele Trevi, Fabio Prestifilippo.
Art. 5 – La fase di preselezione delle opere da sottoporre alla Giuria tecnica sarà a cura della segreteria del Movimento Culturale Spiragli. Nella fase di preselezione, la Giuria tecnica avrà facoltà di segnalare opere particolarmente meritevoli.
Art. 6 – I giudizi espressi dalla Commissione di preselezione
e dalla Giuria tecnica sono insindacabili.
Art. 7 – Il vincitore vedrà pubblicato il suo lavoro nel Catalogo LietoColle, casa editrice da anni attenta a segnalare voci nuove nel panorama poetico italiano.
Art. 8 – Per partecipare al PREMIO LETTERARIO BEPPE SALVIA OPERA PRIMA, la silloge, in formato word e della lunghezza non superiore ai quaranta (40) componimenti, dovrà essere inviata per email all’indirizzo: info@spiragli.org
È obbligatorio allegare la ricevuta attestante il versamento della quota di partecipazione unitamente a una scheda d’iscrizione indicante le generalità dell’autore e il titolo e la sinossi dell’opera, specificando che si tratta di un’opera prima inedita, frutto del proprio ingegno e mai premiata in precedenti concorsi.
Art. 9 – L’invio deve avvenire entro e non oltre il 1 marzo 2018.
Art. 10 – La segreteria del Premio non è responsabile di eventuali smarrimenti o mancata ricezione delle opere inviate. Si consiglia pertanto di chiedere conferma della corretta ricezione dei testi e dei documenti inviati.
Ogni singolo autore risponde direttamente del contenuto delle sue opere e la responsabilità non sarà in alcun caso attribuita agli organizzatori del Premio.
Art. 11 – La cerimonia di premiazione della I edizione del PREMIO LETTERARIO BEPPE SALVIA si terrà a Roma il 6 aprile del 2018 presso la Biblioteca Nazionale Centrale. Tutti i partecipanti al premio verranno invitati a prenderne parte.
Nel corso della cerimonia di premiazione la Giuria del Premio, a suo insindacabile giudizio, assegnerà il riconoscimento alla carriera ad un poeta, italiano o straniero, tradotto in lingua italiano, distintosi negli anni nel panorama poetico internazionale. Non si richiede l’invio di libri.
Art. 12 – A parziale copertura dei costi organizzativi e di segreteria è richiesto ai partecipanti al Premio un contributo di euro quindici (15,00) da versare tramite bonifico bancario, specificando nella causale: “Premio Letterario Beppe Salvia Opera Prima 2018”.
La quota dovrà essere versata entro il 1 marzo 2018 al seguente IBAN:
IT 45 W 01030 41562 000061453881 intestato a Associazione Movimento Culturale Spiragli.
Art. 13 – Il nome del vincitore e quelli dei finalisti del PREMIO LETTERARIO BEPPE SALVIA saranno resi noti sul sito del Movimento Culturale Spiragli (www.spiragli.org)e sul sito della casa editrice LietoColle (www.lietocolle.com).
Art. 14 – Ai sensi della legge 196/2003 si comunica che tutti i dati personali dei quali il PREMIO LETTERARIO BEPPE SALVIA entrerà in possesso, saranno usati solo per quanto attiene il Premio stesso. I dati raccolti non verranno in alcun caso comunicati o diffusi a terzi per finalità diverse da quelle del concorso.
Art. 15 – La partecipazione al Premio comporta l’accettazione di tutte le norme contenute nel presente bando.
Per ulteriori informazioni, consultare i siti www.spiragli.org e www.lietocolle.com e contattare la segreteria del Premio all’indirizzo: info@spiragli.org.
SONO FELICE E TRISTE L’infinito fluire della vita nella poesia di Beppe Salvia
Beppe
Salvia è un figlio di questa terra. Io l’ho “incontrato”– senza affatto
conoscerlo- moltissimi anni fa, quando nel 1987 entrai da docente per la prima
volta nel Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Potenza dove egli era stato
studente non moltissimi anni prima. Più volte a quel tempo ho incrociato il suo
nome nelle parole dei suoi ex professori che raccontavano della morte tragica e
prematura di questo loro studente, giovane poeta trasferitosi a Roma. Beppe
aveva infatti frequentato il liceo proprio a Potenza, dov’era nato il 10
ottobre del 1954, concludendo il suo percorso liceale nella classe V
B dell’anno scolastico 1971/72. I suoi compagni seminano ancora i loro passi
per le vie di questa città, giovani ancora benché non più ragazzi. Beppe no.
Lui no. Il suo ultimo passo fu un volo: sabato 6 aprile
1985, a Roma, in Via del Fontanile
Arenato, spezzò per sempre i suoi versi lanciandosi dalla finestra della sua
casa. “Ho sempre avuto l’impressione che
abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente
simbolico” scrisse Marco Lodoli, suo amico da tanto, nell’imminenza della
sua morte, lamentando la difficoltà di definire la vicenda umana di questo
giovane che poteva solo dirsi un grande poeta.
Beppe Salvia fu certo uno spirito inquieto, schivo per certi versi,
arrabbiato, dolce; librato nella poesia col mondo legato al polso, con il
desiderio di disfarsene e la rabbia di volerlo aggredire vivendo. Non era un
balsamo la poesia per Beppe, era linfa però. A lui si addicono le parole di
Maria Luisa Spaziani per la quale il
ruolo della poesia non è necessariamente rassicurante: “A volte anzi – ella dice- il poeta, anziché consolare, scopre le
ferite, i dolori. Non solo del singolo ma anche di un’intera società”.
E in
questo ruolo poco consolatorio ma piuttosto illuminante va di certo collocata
la poesia di Beppe Salvia, poesia
che è capace di squadernare in una dimensione di profondissimo vissuto quel
sentimento di alienazione che, a partire dalla fine dell’Ottocento, ha pervaso
gli artisti di più spiccata sensibilità, quelli più riottosi alle mode e
convenzioni, quelli più intensi nel rapporto con l’io spirituale/poetico
proprio e del mondo stesso. Ciò si evince chiaramente da quel desiderio di
trovare “un leggero confine” proprio,
una collocazione precisa e stabile nel quadro della propria esistenza.
Desiderio comune ai poeti questo, variamente ascoltato e risolto. Essere poeta è infatti una condizione
dell’anima e per questo un “confine” seppure “leggero”, non si può trovare se
non a condizione di rinunciare a sé. D’altronde è proprio questa la lezione del
Novecento che ci viene dal grande Pirandello e dalla filosofia di Henry Bergson
(1859- 1941) il quale parla del tempo come durata, fluire incessante,
simultaneità per cui la vita diventa evoluzione continua, eterogeneità pura,
proiezione verso forme sempre cangianti, in una perenne attività creatrice. E
se questo vale per tutti, a maggior ragione vale per un poeta; nell’opera di
Beppe Salvia questo continuo fluire istintivo sembra cercare un appiglio, un
limite che appare contemporaneamente vagheggiato e respinto con accenti di fuga
costanti dai paletti che il poeta stesso sembra volersi imporre. Vanno letti
così certi marcati contrasti che sono presenti non soltanto nella “trama” dei
componimenti poetici, ma soprattutto nella tecnica sapientemente utilizzata. I
campi semantici più frequenti, ad esempio, sono legati al concetto della
vaghezza, dello sfinimento, del deserto, del silenzio, dell’assenza, della
morte e della vita, sono insomma di per se stessi “sconfinati” nel senso
etimologico della parola; di contro la frequenza evidentissima di alcune figure
retoriche come il poliptoto e la figura etimologica sembrano voler
incatenare i versi, dargli un peso perché non si disperdano. Inoltre molti
componimenti iniziano con la lettera minuscola e a volte, pur essendo presente
nel testo la punteggiatura, manca il punto fermo proprio alla fine. La
suggestione che ne deriva è quella di “incrociare” in quelle poesie un pensiero
ad alta voce del poeta, quasi uno stralcio casualmente sfuggito a un discorso
interiore più lungo. Indice di un’istintiva mancanza di confine del poeta è anche il prevalere nei suoi versi del colore
bianco; l’anima stessa del poeta sembra espandersi in tanto chiarore che tende
sempre più a creare un’immagine rarefatta e assai poco didascalica; ma anche
qui a volte l’antitesi è creata dai pochi altri colori che di tanto in tanto
appaiono e che sono viceversa colori forti come il rosso e il blu, o – in netta
contrapposizione- il nero. Ma la sensazione più forte che trasmette la
poesia di Beppe Salvia è quella dell’insofferenza del poeta alla propria
grandezza, di un istintivo espandersi
continuamente “minacciato” dal limite della concretezza, di un perpetuo
oscillare. “Sono felice e triste”
scrive il poeta; e ancora “ho nostalgia
delle cose impossibili”. E così, mentre scriveva di “vivere ma quasi senza vita”, ha finito col morire, ma quasi senza
morte.
Anna R. G. Rivelli
da Il Roma del 23 ottobre 2017
JACK
Jack con in bocca
il mio cuore,
nei giochi
d'acqua di tutt'altre estati
te ne andrai
per i campi
d'agosto
nell'assoluto
nero di un giorno
in cui volentieri
anch'io
morirei.
L'arcobaleno ti
salverà.
Sarà ponte al mio
fiume,
via
alle tue zampe
stanche.
E memoria
d'eterno.
Ma tu
avrai in bocca il
mio cuore.
Intanto lugete
o Veneres
Cupidinesque.
Anna R.G. Rivelli
"SE CI SONO DUE ALBERI"... a Milano
Il 20 Luglio scorso a
Milano, presso l’Associazione Art
Marginem, si è tenuta la presentazione dell’ultimo romanzo di Anna R. G.
Rivelli, dal titolo “Se ci sono due alberi”, Eretica Edizioni. La storia narrata, che si sviluppa nell’arco
di soli tre giorni e in un unico asfittico luogo, ha come protagonista Lu, una
giovane ragazza senza memoria che con il suo modo di intendere la vita finisce
per imporre una seria riflessione sull’esistenza a tutti coloro che vengono in
contatto con lei, fino a diventare inconsapevolmente una vera guida spirituale
per il giovane medico che l’ha in cura, il quale riuscirà alla fine a
percepire, desiderare e condividere quelli che inizialmente gli erano apparsi una
visione sbagliata della vita e un atteggiamento malato nei confronti di essa. Per questo il libro offre al lettore numerosi
spunti di riflessione e altrettante tracce per una comprensione più piena ed
empatica di diverse questioni attinenti alla nostra società attuale, a partire
dallo smarrimento dell’io, che affligge per svariate motivazioni i giovani in
particolare, fino ad arrivare alla necessità di riappropriarsi di una vera
libertà, contro tutte le ipocrisie e gli stereotipi che vengono spesso proposti
come “canoni” per sopravvivere. Questi ed altri temi sono stati sottolineati
dai relatori. Adriano Pompa, Presidente di Art Marginem, associazione che –
come si legge nel sito web- è “un luogo dove si impara , si insegna, si espone, un club di arte dove
ridare vitalità all'istinto del disegno, alla creazione”, nell’introdurre la serata ha
sottolineato il filo invisibile e tenace che lo lega alla Basilicata e
all’autrice stessa. Egli, infatti, artista di grande qualità ed inventiva, è
figlio di Gaetano Pompa, pittore originario di Forenza notissimo a livello
internazionale, che recentemente la Rivelli ha inteso far recensire sulla
rivista Sineresi da lei stessa diretta. La lettura critica del romanzo è stata
fatta da Sara Valmaggi, Vicepresidente del Consiglio della Regione Lombardia, e
Vito Santarsiero, Presidente della Commissione Affari Costituzionali della
Regione Basilicata, entrambi presenti in una doppia veste, quella istituzionale
, a celebrazione di quel legame tra le due regioni sottolineato da Pompa, e quella personale. La Valmaggi, che già con
il precedente romanzo si era dimostrata a Sesto splendida ospite
dell’autrice e attenta lettrice della
sua opera, ha sottolineato come il romanzo sia capace di porre in campo temi
numerosi e profondi, soffermandosi in particolare sulle questioni che attengono
alla condizione femminile, alle discriminazioni ancora evidenti nella società
ed alla necessità di un’educazione che insegni l’accettazione delle diversità e
la comprensione dell’altro. Vito Santarsiero, intervenuto anche come
collaboratore della rivista Sineresi, tra gli altri temi si è soffermato in
particolare sul valore della libertà, che è sicuramente la struttura portante
del romanzo, ed ha evidenziato il legame esistente tra l’agire di Lu, la
protagonista, e l’obsistenza, tema individuato dalla Rivelli come ispiratore
dell’ultimo numero della rivista.
La serata, nella bellissima e informale location – una
vecchia fabbrica di cornici trasformata in laboratorio di artisti e pullulante
di opere straordinarie - si è conclusa con l’intervento dell’autrice che ha
dialogato con un pubblico particolarmente attento e loquace, il quale ha
interagito attivamente offrendo altri spunti ed altre riflessioni e mostrando
particolare entusiasmo proprio per il concetto di obsistenza e per il vocabolo
stesso, prontamente recepito, condiviso e segnalato ancora all’Accademia della
Crusca perché possa presto rientrare tra i neologismi della nostra lingua.
L'OBSISTENZA DELL'ESSERE NEL TEMPO DELL'APPARIRE
Bernardo Panella (Viggiano 1934- Potenza 2017), lucano di nascita e di ispirazione, è stato poeta raffinato e colto, ma schivo e per scelta ostinatamente lontano da ogni ribalta. Già nel 1964 fu premiato da Leonardo Sinisgalli che lo riconobbe degno di figurare tra i poeti italiani del dopoguerra.
OBSISTENZA
Il tema del n.4 della rivista Sineresi è l'obsistenza. La parola, ma soprattutto il significato per cui è stata coniata (modellandola sul verbo latino obsistere e contrapponendola al tanto abusato concetto di resilienza), ha suscitato grande interesse e condivisione, cosicché oltre ad essere stata utilizzata in tutti gli articoli del citato numero di Sineresi, sta diventando di uso comune tra quanti hanno avuto modo di conoscerla. Il suggerimento, provenuto da più parti, di proporla all'Accademia della Crusca come nuova parola della lingua italiana è stato perciò accolto e sembra che le segnalazioni siano state numerose, visto che OBSISTENZA compare sul sito dell'Accademia tra le parole più segnalate.
Mi sembra giusto, pertanto, chiarirne il significato cosicché possa essere utilizzata consapevolmente da chi ne fosse affascinato e, eventualmente, volesse contribuire a farla crescere segnalandola a sua volta all'Accademia della Crusca ( ecco il link utile per farlo http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/parole-nuove/segnala-nuove-parole?parola=obsistenza ).
Qui di seguito, a scopo esplicativo, la trascrizione dell'Editoriale del n. 4 della rivista "SINERESI -il diritto di essere eretici"
L'OBSISTENZA
L’abbiamo chiamata obsistenza, perché obsistere è più che resistere, più che essere resilienti.
L’abbiamo chiamata obsistenza perché obsistere è contrapporsi, opporsi,
impedire. Ci interessa dell’Uomo lo
slancio titanico talvolta dolente e persino rassegnato, talvolta eroico e pieno
di aspettative. Ci interessa il sogno di chi crede di poter cambiare il mondo e
la rabbia di chi non ci crede, ma non smette di lottare perché non smette di
essere uomo. Ci interessa tutto ciò che è inequivocabilmente ed inesorabilmente
contrario alla passiva accettazione di uno status quo, tutto ciò che si erge
contro la deformazione personale/sociale nell’ottica dell’adattamento
finalizzato alla propria mera sopravvivenza; ci interessa ciò che cambia il
male e non ciò che cambia in male per poter restare. Per questo noi tutti
parliamo di obsistenza e parliamo di
poesia, di musica, di politica e narrativa, di arte… parliamo di cultura perché
la cultura è per sua natura obsistente, perché la cultura è pensiero, è
riflessione, è movimento e bellezza. La cultura è ciò che cambia lo sguardo per
poter cambiare il paesaggio, è il mutamento del cielo che crea le stagioni; la
cultura è scomoda, profetica, scandalosa, spesso arrabbiata; la cultura che ha
bisogno di obsistere sperimenta l’angoscia, l’emarginazione, lo smarrimento,
l’umiliazione, ma resta viva, viva e oppositiva e propositiva e salda nella sua
lotta troppe volte denigrata e incompresa, mai suddita, mai sconfitta davvero.
L’abbiamo chiamata obsistenza perché è obsistere che si deve.
Anna R.G. Rivelli
SINERESI: DOPPIO APPUNTAMENTO
Doppio appuntamento per Sineresi e per il tema del nuovo numero: l'obsistenza
Sabato 13 maggio a Melfi
Domenica 14 maggio a Genzano
Beppe Salvia a Potenza
Giornata di studi dedicata al poeta lucano Beppe Salvia
Museo Provinciale, Potenza, 7 aprile 2017
Organizzato da
Movimento Culturale Spiragli
con il patrocinio della Regione Basilicata
Relatori:
Claudio Damiani
Andrea Di Consoli
Anna R. G. Rivelli
Mimmo Sammartino
Gabriella Sica
Moderatore
Bartolomeo Smaldone
Saluto
Vito Santarsiero
Letture
Isabella Urbano
ERCOLE PIGNATELLI (o di una bugonia)
Non appena ho
iniziato ad interessarmi di Ercole Pignatelli ho preso a cercare immagini delle
sue opere nel web e a sfogliare alcuni
suoi cataloghi. Generalmente, infatti, mi avvicino agli artisti partendo dalle
opere e non dalle biografie o dagli interventi critici che li riguardano;
questo perché sono profondamente convinta del fatto che l’arte è una creatura
viva e come tale non può essere come primo passo indagata senza in qualche modo
offenderla e determinare alla fine una barriera tra noi e la sua voce. In
quanto creatura viva, invece, essa va ascoltata, conosciuta empaticamente,
cosicché possa scoccare quella sorta di scintilla d’amore che ce la farà
conoscere profondamente senza sentire il bisogno di dover di necessità ancorare
questa nostra conoscenza ad una minuziosa razionalità, senza dover cercare il
messaggio più o meno astruso in una cosa, l’arte appunto, che il messaggio ce
lo ha connaturato nel suo essere in quanto comunicazione e bellezza.
Non appena ho
iniziato ad interessarmi di Ercole Pignatelli, dicevo, e a guardare le sue
opere, mi sono venuti in mente dei versi del poeta che più amo.
“Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe/anche un
pensiero…”
e ancora
“e l’azzurro che nasce, a corolle, negli anditi”
“Vorrei
essere fieno sul finire del giorno/ portato alla deriva/ fra campi di tabacco e
ulivi…”
Versi di
Vittorio Bodini, straordinario poeta contemporaneo (1914-1970), che con il nostro
Artista condivide la città natia: Lecce. Io però non lo sapevo. L’ho scoperto
solo dopo, quando finalmente mi sono accinta a leggere le note biografiche di
Ercole Pignatelli. La cosa mi ha colpito molto, perché mi è apparso evidente
che nelle sue opere, pur così europee, così internazionali, palpita un indomito cuore del Sud che del suo
essere ha saputo fare una cifra e non un discorso.
Sono dunque partita
da qui, da questa suggestione, per innamorarmi di questo “ragazzo col diavolo
in corpo” – come è stato definito da Alessandro Riva- che veleggia col suo
intatto bagaglio di infanzia verso porti che non vuol trovare, mozzo per gioco,
capitano per destino. E mi sono chiesta cos’è che mi ha riportato a Bodini,
anche lui innamorato del suo Salento, anche lui lontano e vicino ad un tempo.
Mi sono risposta. Nelle opere di Pignatelli si percepisce un medesimo panismo,
un immedesimarsi in un paesaggio talmente interiorizzato che appare dalla sua
stessa sparizione, un paesaggio che più si fa vaghezza, sogno, miraggio, più è
capace di trasferire suoni, profumi, emozioni. Se cerchiamo un tratto, infatti, uno solo che
sia didascalico di un territorio, che ce lo marchi a fuoco in tutta la sua
evidenza, non lo troveremo mai; troviamo
però allusioni simboliche, eco indistinte, memorie svagate che sono tanto più
incisive in quanto non ci consentono di “leggere” ma ci costringono a
“sentire”. Così, al di là del forte legame con Picasso (legame evidente dagli
omaggi riservatigli nonché dichiarato dalla voce stessa di Pignatelli), al di
là di una suggestione che resta suggestione mediterranea oltre che fatale
incontro di spiriti, mito e fede di questo nostro straordinario artista è la
vita. Una vita che è prima di tutto libertà, appartenenza a se stesso, cammino
mai vincolato a schemi o a mode o a “maniere”, col gusto di soffermarsi ora, di
accelerare il passo poi; vita che è un continuum, un fluire privo di contraddizioni
tra spiritualità sfrontata e sacro materialismo.
Giovane, sempre
giovane, ventenne ottuagenario, ha mantenuto lo sguardo dei suoi ritratti degli
anni ’60 ; ed è quello lo sguardo con cui interroga e racconta l’esistenza, sia
quando riscrive in una sorta di sua personale bugonia la vita che rinasce dalle
rovine e dalla marcescenza (pensiamo ai “basamenti”, tronchi di colonne da cui
sbucano fiori e frutti come capitelli, o ai teschi di animali che si riempiono
di miraggi), sia quando il colore sboccia da una figura più inquietante che
leggiadra, più allusione che figura ( come in “Vitalità”, opera del 1959,
premiata e tanto discussa per essere sostanzialmente figura altra da se stessa).
E questo è
sicuramente un altro tratto distintivo di Pignatelli; la sua è una pittura
figurativa certo, ma tutt’altro che realista. La figura che si impone sulle sue
tele, infatti, sia essa un corpo di donna, una struttura architettonica o una coppa
traboccante di frutti, non comunica mai davvero se stessa, non descrive ma
evoca. Accade così con le acrobate che, in un assioma di straripante rotondità,
si offrono in torsioni innaturali che paradossalmente le naturalizzano,
assimilandole ai lussureggianti elementi vegetali che le accompagnano; accade
così con le rabdomanti che sembrano germinare da tralci turgidi, nascoste ed
esposte coi loro rossi succosi come bacche mature, come appetibili coccole,
insidie di un bosco incantato. Mai insomma la figura racconta, nemmeno con le
geometrie ora arabeggianti ora metafisiche delle masserie che infrangono lo
spazio-tempo e sono luoghi dell’immanenza e della trascendenza, terra e
miraggio, paesaggi biblici sospesi eppure immagini della memoria dove l’acqua,
a fiotti dai rubinetti o in rissa nel mare, è voce che spezza incantesimi e
silenzi; le masserie, ove il bianco della calce salentina ( “…e tornerà/ il bianco per un attimo a
brillare/ della calce, regina arsa e concreta/ di questi umili luoghi…”
scriveva Bodini) lascia posto a colori
sognanti, vibranti di ombre di lune, sovrastati dalla sproporzione di alberi e
frutti, uniformati dalla controra o dai notturni, sono luoghi dell’anima, sono
favola bella contemplata a tratti, a tratti allontanata e minacciata da
presenze ambigue, come i serpenti che non sai se hanno voglia di aggiungere o
di togliere vita.
E poi c’è il
colore, il colore che è protagonista assoluto, l’uno plurale che domina ovunque
in ogni sfumatura e mai sfumato, mai incerto. Il colore è figura più della
figura stessa, è proiezione del verbo. Tenue, lussurioso, incandescente, sia
quando si offre uniforme in un piano, sia quando si strugge nell’ardimento di
una marina o nella seduzione di arabeschi o viluppi vegetali, il colore è il
battito che echeggia la vita; e il silenzio lo amplifica e laddove i grandi
uccelli, sui grandi alberi dai grandi frutti occuperebbero volentieri la scena
è il ritmo cromatico che ci emoziona e ci rimbomba un mondo che non è quello
che vediamo; così nelle fruttiere stracolme di ogni blu, dove è solo la luce a
denunciare il mistero irrisolto, o nel sensuale aprirsi carminio di melagrane
su un tralcio è sempre il colore che dice “io sono” come in un credo antico. Un
colore turgido, sensuale, rotondo; un colore martoriato, graffiato, frugato.
Comunque esso sia, ha un effetto sinestetico: lo senti, lo tocchi, lo assapori.
Ed è questo il
motivo per cui alla fine non vedi più Picasso, né il Salento, né l’infanzia
impacchettata come le tele che un giovanissimo Pignatelli portava in giro da
mostrare a galleristi e critici; non vedi più nulla perché tutto coesiste e si
risolve nell’unica figura realistica presente: quella dell’Artista stesso. Qui
però qualche dubbio ci sta. Che sia realistica intendo. A ben guardarlo,
infatti, mentre da un ritratto ti fissa da dietro gli occhialini tondi nei
panni di Toulouse Lautrec, il dubbio ti viene che sia un satiro dispettoso
anche lui, o un Peter Pan irriverente che mentre tu ti affannai a cercargli un
senso ti ha già trasportato nella sua isola che non c’è.
Anna R.G. Rivelli
ANCHE IO "LOTTO MARZO"
"...è allora che sei al bivio e devi scegliere se vivere nel quadro o oltrepassare la cornice, se ti accontenti di restare pastorello in un presepio immobile o ti riappropri di un’energia che non ha nome e scorre, annullando confini e convenzioni, le moralissime idee perverse incasellate dentro un cruciverba di soluzioni sterili e stantie, contate come lettere di un alfabeto chiaro e limitato. Se resti dentro il quadro vivi; se esci sei vivo "
(da "Se ci sono due alberi" di Anna R.G. Rivelli)
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