GLI ARTISTI DI "VICOLI IN ARTE" 2018




Senza meta
GIOVANNI CAFARELLI
Il paesaggio lucano, la memoria sono il nucleo portante della poetica di Cafarelli, ma non si esauriscono in sé, quanto piuttosto si fanno fondamento di una visione che si allarga alla meditazione sull’essere, alla sua caducità, ai guasti del mondo. Il paesaggio diventa così “viscerale”, scoperta di una interiorità della terra che si fa analogica rappresentazione dell’interiorità dell’Uomo; la perfezione sferica dei tondi (simbolicamente globi terrestri) viene contraddetta ora dalla materia scabra e frastagliata, ora dalla fragilità della materia tessile “sfregiata” dal colore, allusione chiara al dramma della più diseredata umanità.          




Nel giardino acquario del sogno di G.P.
PASQUALE CILIENTO
Le opere di Pasquale Ciliento sono pervase da una sorta di sospensione, quasi un sentimento di attesa di fronte ad una visione onirica che si appresta a divenire minuta realtà, e viceversa. Ci sono insomma indizi di sogno nel vero e concretezza esplicita nella fantasticheria, cosicché i due piani si intersecano a rappresentare, in sostanza, quella che è la complessità spesso indecifrabile dell’esistenza.



Figura

VINCENZO CLAPS
La figura femminile stilizzata e scomposta è al centro delle opere di Vincenzo Claps. La rappresentazione, che si limita al volto e a parte del busto, è calata nella terrena atemporalità di uno sfondo troppo compatto per essere cielo, troppo celeste per non esserlo. I visi, poi, nella loro essenzialità, nella rifrazione dei tagli, negli accenni ai dettagli appaiono colti in una fase di panica metamorfosi.



Cavaliere errante
GIUSEPPINA FERRARA
Cristallizzarsi in una forma significa morire; questa sembra essere la filosofia che sottende l’opera di Giuseppina Ferrara, opera in cui il colore appare quasi rappresentazione plastica del percorso che la materia intraprende per poter divenire “cosa”, senza tuttavia fermarsi, senza perdere la propria indefinitezza magmatica. Il concetto viene simbolicamente richiamato dal titolo che accomuna tutte e quattro le opere presentate (Cavaliere errante), titolo che nella sua sonorità pone l’accento non sul soggetto, ma sul suo errare incessante.





Fugace

RAFFAELE IANNONE
Le dimensioni del tempo appaiono strettamente connesse in queste opere di Raffaele Iannone che si presentano quasi immagini di fossili, piccoli reperti trascurati di un quotidiano che fu, ma che continua ad essere e che si trasmetterà ancora, così come realmente avviene per i fossili, attraversando indenne le ere. È la vita delle più fragili cose che bleffa la morte e conquista l’eternità. Quasi un messaggio di intima fratellanza con l’infinitesimale.





GAETANO LIGRANI
Se è vero che, come ci insegna Euclide, la geometria è il modello di base per la rappresentazione della realtà, è indubbio che Gaetano Ligrani si diverte ad individuare nel libro del mondo il gioco matematico del creato. I suoi paesaggi, infatti, naturali o antropici che siano, appaiono nel loro rigoroso impianto, senza tuttavia perdere nulla della naturalità che è insita nei nostri orizzonti vicini e lontani. Anzi nelle sue opere c’è quasi una sintesi, o se vogliamo una contaminazione, tra il creato divino ed il creato umano, perché, rappresentati nella loro essenza matematica, non possono che apparire  entrambi frutto perfetto di menti geniali.



Danza di una musa
DONATO LINZALATA
I suoi totem sono creature terrene (soprattutto per il legno che è materiale preponderante nella sua produzione e lega le sue opere alla terra, ai boschi, alla cultura contadina della Lucania) ma anche creature divine che si proiettano verso il cielo, vagamente antropomorfe, zoomorfe a tratti, complessivamente più simboliche che concrete nonostante una possente fisicità che, già percepibile nelle opere di dimensioni più piccole, si fa di stupefacente imponenza in quelle più grandi.











FELICE LOVISCO
Estasi blu
Nelle sue opere la figura umana è solo apparentemente  preponderante, ma in realtà è ridotta a reperto, quasi reliquia di un tempo passato che sembra ricordarci la caducità dell’uomo di fronte all’eternità della natura, che si affaccia a volte negli sfondi o semplicemente si materializza in un frutto trascuratamente lasciato sul piano,  e al cammino della storia     che irrompe attraverso le trasparenze di una carta stampata o la stilizzazione del profilo umano. Alla fine è il colore il vero protagonista di queste opere.

            Anna R. G. Rivelli

ARTE, SILLOGISMO DI PACE



“Un  lavoro artistico di successo – scrive il filosofo tedesco Theodor W. Adorno - non è quello che risolve le contraddizioni in una armonia spuria, ma quello che esprime l’idea di armonia negativamente con l’incorporare le contraddizioni, pure e prive di compromessi, nella sua struttura interna”.  Possiamo dire quindi che un lavoro artistico di successo è, in sostanza, non espressione di pace, bensì costruttore di pace. Se è vero infatti, come Adorno dice, che l’arte è capace di creare una sorta di armonia delle contraddizioni pure, è evidente che nell’arte l’inconciliabile diventa conciliabile non già nel compromesso e/o nell’indebolimento o nella perdita dell’identità, bensì nella collocazione egualitariamente autorevole all’interno di un mondo. Compito dell’arte dunque - ed è lo stesso Adorno che lo dice-  è quello di portare il caos nella nostra società, di porsi cioè come altro dal mondo ed elemento di disturbo laddove il mondo si presentasse cristallizzato e chiuso in una sua non dialogante razionalità, laddove – così come oggi accade - esprimesse una volontà di identità assoluta con se stessa e un sentimento di ostilità per tutto ciò che è diverso.
L’arte, d’altronde, è un linguaggio e come tutti i linguaggi serve a comunicare, a mettere in comune cioè, a creare quella relazione che è il più solido fondamento della pace.  L’arte perciò sa distruggere lo stereotipo, destrutturare la consuetudine, portare alla luce l’invisibile, farsi, nella propria assoluta autonomia, strumento proiettivo della realtà che sarà. L’artista, infatti, legge del presente tangibile le energie  che  lo sottendono piuttosto che le linee già  rivelate, e giunge quindi alla “visione” più che al visto. E la pace da sempre ha bisogno di visioni e di visionari; ha bisogno di chi sappia andare oltre il senso letterale delle cose, oltre la gabbia della pedanteria e oltre la pedanteria del particolare. E ha bisogno di bellezza la pace. Sul confine tra la bellezza e il brutto si gioca infatti il destino del mondo. Del brutto estetico si nutre il brutto etico, la saturazione del grigio non può che restare grigio laddove non si portano i colori. La bruttezza non è solo disarmonia, è un fato malvagio; le brutte periferie allevano le  teppe, le brutte aule il disamore allo studio, non si può sfuggire. Il brutto è fagocitatore, assimila a sé tutto e nel piattume che genera finisce per stigmatizzare la differenza come difetto, vizio, elemento nemico. Dalla bruttezza percepita come destino ineluttabile, insomma, scaturisce quel sentimento di ostilità e quel desiderio di sopraffazione  che sono i germi delle guerre piccole e grandi. Uguale e contrario è il modus operandi della bellezza; il bello genera bello, è attrattore e propulsore insieme, comprende, amalgama ma non annulla le sfumature. Nella bellezza nasce la positività del pensiero e la capacità di immaginare percorsi sempre migliori. L’arte è dunque custode e interprete di questa bellezza che è ben lungi dall’essere quello statico e insulso cliché che l’industrializzazione del pensiero ha partorito nell’epoca contemporanea; l’arte ci insegna che la bellezza non è una e, soprattutto, non è un prototipo a cui adeguarsi, ma una filosofia da cui farsi guidare per scoprire la molteplicità e la varietà insite nell’universo come essenze con cui confrontarsi e non come sostanze con cui entrare in competizione.  E questa è la Pace.

                                                            Anna R.G. Rivelli