IL RISVEGLIO DI TANO

Lago Pantano - Pignola (Pz)


Non si potrebbe dire se fosse la calda ora pomeridiana, l’estate già avviata al declino o l’interrotta frenesia cittadina a fare di quel luogo un’oasi di pace; sta di fatto che l’azzurrino consumato del cielo si stendeva solo per la cornice di monti e per il lago dagli infiniti toni di verde, accartocciato con le sue sponde lutulente nell’abbraccio grigio della passeggiata su cui né una bici sfrecciava, né si logorava nella corsa qualche giovane atleta e nemmeno mormoravano strette strette le solite coppiette.
La folta chioma che spuntava al di sopra del pagliaio cui l’albero prestava il suo fusto disegnava contro il cielo il profilo di Einstein; ed era quello l’unico umano sembiante che si poteva scorgere quel pomeriggio al Pantano. La figura di Tano, invece, semidistesa ai bordi estremi del lago paludoso aveva già assunto un che di vegetale, immobile com’era, appena china sulla canna da pesca con la stessa molle noncuranza con cui i giunchi si erano piegati a lambire le acque. La quiete si sarebbe potuto materializzarla nell’immagine di quell’acqua ferma sotto il faticoso nuotare delle piccole anatre, nella voce del fitto canneto al centro del lago in cui frotte di uccelli ciacolavano festose prima della buonanotte, mentre un rumore curioso, una sorta di chiacchiericcio sommesso, passava sullo specchio melmoso e non si capiva donde mai provenisse. Un odore pastoso esalava dall’erba madida del passato acquazzone e dalla terra che sprigionava in fretta al breve bagno di pioggia i suoi umori più intensi e profondi, negati a lungo alle crepe dei più aridi sereni. Nugoli di moscerini sciamavano senza posa, riempiendo con quell’inutile agitarsi la vanità del loro esistere senza nemmeno riuscire in tanto affaticarsi a togliere qualcosa all’immobilità del paesaggio. C’era spazio per ridere o per piangere, per ricordare o per riprogettarsi o forse per nulla di tutto questo; c’era l’atmosfera giusta per rimanere sospesi a metà di se stessi e riempire di un dolce non essere la propria vita, illudendosi come i moscerini di fare alcunché.
  Ed era sempre troppo limpida l’ora perché Tano pensasse; filtrava il paesaggio nel fumo di una sigaretta accesa senza voglia che si consumava inerte tra le sue dita accanto alla canna.
  Questa era la pace di Tano; ma come nel sortilegio di una fiaba durava solo fin quando le prime ombre non si allungavano verso di lui che raccoglieva in fretta le sue cose per fuggire via; era così da quasi vent’anni e non gli era mai capitato come quella sera di abbandonarsi ad un dolce torpore e di destarsi solo quando le sanguinanti dita del sole avevano già dato al piccolo lago un colore sinistro. Il risveglio improvviso avvenne in un paesaggio sconosciuto e inquietante; le tinte del lago erano state mutate dall’oscurità incalzante e nell’acqua livida del tramonto si proiettavano cupe le ombre dei monti mentre in lontananza le tremule luci delle masserie sembravano azzurri fuochi fatui di un perduto cimitero. Tano rabbrividì guardando alla palude da cui giunchi e canne sorgevano in forme e colori inconsueti animandosi di un sordo e snervante gracidio che copriva le voci più familiari le quali egli invano si sforzava di percepire; non fu capace di muoversi nemmeno quando un filo di vento cominciò a increspare il rosso fuggente e ad agitare le piante; nella mente di Tano cominciarono a riaffiorare immagini lontane e ogni suono dintorno pareva articolarsi nel suo nome: “Tano, Tano” chiamavano alle sue spalle le prime civette e “Tano, Tano” ripetevano dalla giuncaia i rospi gonfi. Ma Tano smarrito e immobile sembrava gelato nelle mani dei suoi fantasmi che pur tornavano ogni sera dagli abissi del tempo alla sua casa di stimato professionista dove solo la sua donna elegante e i suoi ignari bambini riuscivano a parare le rappresaglie che egli stesso tendeva al colpevole del suo inespiato delitto. “tano, Tano” sentì ancora dinanzi a sé e alzando losguardo scorse proprio in mezzo al lago un’esile figura di donna semi immersa fino alle ginocchia: “Tano, Tano, vieni sono Lucietta, non vuoi prendermi ancora?”
  “Via, via chi sei, chi sei?” gridò impazzito Tano scattando in piedi ai bordi della palude.

  “Lucietta, Lucietta, sono Lucietta” cantilenava l’apparsa fanciulla. “Vieni, vieni, divertiti ancora come quella volta”.
  Tano sgranò gli occhi, se mai più ancora poteva, e riconobbe gli acerbi seni graffiati sotto le mani premute su brandelli di veste e riconobbe pure le morbide gambe tra cui scorreva come sangue dileguandosi il tramonto; ma gli occhi no, non il sorriso, perché l’ultima espressione di quel viso era stata di paura e dolore, l’ultimo alito di quella vita lo aveva ingoiato la sua risata spavalda e sfrenata su quel giovane corpo.
  “Lucietta, no!” aveva gridato il pescatore. “Tu, tu qui, a distanza di chilometri, a distanza di anni!”.
  “Vieni Tano, sono io che ti voglio adesso, vieni”.

  “No, Lucietta, no!” gridava Tano avviandosi come un automa verso di lei che gli tendeva le mani e nella luce morente che le arrossava le gote e le accendeva le chiome era bella, bella, più bella di quando i suoi freschi anni l’avevano tradita.
  “No, no!” urlava ancora l’uomo irretito da quell’immagine vana, procedendo nella palude che inesorabile lo ingoiava.
  Restò di lui la canna da pesca e poi al suo posto una croce per il suo corpo mai più ritrovato. Rideva ora Lucietta nella sua ignota sepoltura. 

Anna R. G. Rivelli
(da "Reportage di un unico grido" - Firenze libri, Maremmi Editore - 1996)

DIPHDA A TRAMUTOLA

"Dama con ermgattino" Elaborazione grafica per la copertina di Luciana Ciolfi ed Antonio Dipersia


Il Circolo culturale Vincenzo Ferroni
presenta
l'ultimo romanzo di Anna R.G. Rivelli
"Diphda non è solo un gatto"

Mercoledì 6 agosto 2014 
ore 18:30
Palazzo Terzella - Tramutola (Pz)