Lampedusa

Giovanni Cafarelli "LAMPEDUSA" installazione - 2013


Come un dio cammineranno sopra le acque le tue scarpe perdute, fratello che cercavi una terra ed hai smarrito il nome; cammineranno vaghe, intrepide, piangenti, correndo dietro all’uomo che tu eri, all’uomo che non sei oggi più, qui, su questa sabbia che ha echi di saette, su questa deriva d’Africa e d’Europa, su questo lurido colar di numeri a picco in un catino di mare sulla finestra del mondo. Cammineranno. Avranno passi senza peso respinti dagli spari di leggi e di fucili, e corse di fiato interminabile dalla frontiera, e porteranno parole senza suono, reti attonite e fiori d’onde nere. E le vedranno gli Arabi e i Fenici, i Greci ed i Romani; le incroceranno gli eserciti e le processioni, gli inverni e le calure. E saliranno pioli di nuvole e di sole per stare di vedetta a tre anni di figlio cullati dal vento, per scrutare nel fondo Nereidi e Malìe straziate dal pianto. Né più si fermerà il cammino dalla guerra al dolore, dalla fame alla colpa del silenzio. Cammineranno le tue scarpe perdute, fratello che cercavi una terra e ci hai smarrito il cuore.  

     Anna R.G. Rivelli

La voce che scompone il buio



    
 Il qui e l’altrove, la materia e lo spirito: Giovanni Cafarelli si muove nell’infinito dello spazio e del tempo ora come smarrito pellegrino sul calare delle tenebre, ora come Parsifal alla ricerca del Sacro Graal. Affascinato dal cielo non meno di quanto lo sia dalla terra, dimora e lotta sopra un confine dal quale si allontana e al quale torna incessantemente, ribelle alla definitività di qualsiasi scelta. Dentro il suo cuore di uomo il passato, il presente e il futuro incrociano le spade contendendosi nostalgie ed attese, il finito e l’infinito si affrontano entrambi sfuggenti come ombre, ma sotto il suo sguardo d’artista non esiste barriera o frattura e l’arcana soluzione del mistero dell’esistenza si offre come risposta netta ed immediata, quasi priva di dubbio benché figlia di un tormento che fa sanguinare l’anima. In una sorta di laica consacrazione, la materia si transustanzia e il sentimento panico di meraviglia e sgomento si risolve in una identificazione totale con l’universo, in un panismo che, incredulo, a tratti inciampa nella memoria e pone ancora domande. Perciò l’uomo che giganteggia di fronte a una luna ormai conquistata (20 luglio 1969) è il medesimo che aspira al cielo come meta d’affanni (E quindi uscimmo a riveder le stelle), il verbo inespresso (Le parole che non ti ho detto) acquista la stessa forza della parola mistica (Mistico, Qabbaláh) e, come in uno splendido verso del poeta Vittorio Bodini, le creature terrene che, sorvolandola, annunciano la sera sono contemporaneamente infere e celesti (Angeli pterodattili).
    Per declinare il suo pensiero e la sua visione del mondo Giovanni Cafarelli sceglie colori perentori come il nero, il rosso, il bianco, l’oro; a tali colori, però, dà il tormento dei suoi irrisolti interrogativi di uomo, li scava, li accende, li affronta sprofondandoli nella materia, attraversandoli con fendenti d’ombre col desiderio di scoprirne un’intrinseca debolezza per potercisi identificare. Ma la magia dell’arte – magia liberata dalla menzogna di essere verità (T. Adorno) – ancora una volta elimina la dicotomia ed esprime la totalità. Così, quanto più la materia si fa greve diventando ossa e carne della terra, tanto più la forma sfugge e si fa spirito nella perfezione del cerchio, nella sua compiutezza senza inizio né fine, nel suo essere metafora della ciclicità del tempo o esoterico limite invalicabile. E laddove ritorna la terra nel quadrato che si oppone al cielo, la circonferenza ritorna nella meditazione di un percorso che va dall’alfa alla A, sostanzialmente richiudendosi su se stesso (Alfaà).
    Ed è in questo percorso che anche l’artista e l’uomo  finiscono per ritrovarsi come anima e corpo nella valle di Giosafat; come la voce che scompone il buio.

         Anna R.G. Rivelli

Semplice come un temporale



Una cifra personale  e inconfondibile è il filo di Arianna che da oltre trent’anni consente  all’artista Comminiello di avventurarsi negli insidiosi labirinti della sperimentazione senza fermarsi e senza allontanarsi da se stesso. Il suo percorso, infatti, non conosce soste, ma il suo andare avanti non è mai negazione o ripensamento del passato, piuttosto è un dialogo continuo con quel mondo che, come scriveva il filosofo Albert Camus, se fosse chiaro non consentirebbe all’arte di esistere. Ed è proprio il mondo, con il cumulo delle sue infinite contraddizioni, che tormenta l’artista e, contemporaneamente, lo esorta al cammino, disseminandogli  la via di dubbi e di ansie come tracce di possibili mete dell’umanità. Ed è per questo che da quella sorta di caos primigenio, che qualche anno fa esplodeva nelle opere di Comminiello con una gremitissima raffigurazione spesso circoscritta in forme quasi uterine, oggi si fa spazio e si libera un racconto di intensa e filosofica sacralità del quale è elemento propulsore l’ambigua informalità di certi sfondi.
     Una simbologia a tratti sibillina, a tratti così palese da farsi fabula, occupa perennemente il proscenio nell’opera di Comminiello e svela la complicata semplicità dell’esistenza, il nascere spontaneo della vita, il dominio del tempo, lo stupor delle creature perse nell’infinito. Il seme, la clessidra, la pietra, le isole orfane di una pangea e ancora alla ricerca del proprio posto nell’universo, l’onda di una piena che rapisce e seppellendo salva, l’χϑύς sono elementi base di questa narrazione  e continuamente mediano la disputa tra umano e divino, tra cuore e ragione.
    E l’artista Comminiello, avvertendo la limitatezza della propria condizione di uomo di fronte alla grandiosità della creazione e la pochezza delle sue parole così insufficienti ad esprimerne il senso, si danna nella ricerca di qualsiasi accento che sia capace di rendere plastica la passione che arde nel suo interrogarsi perpetuo. Le sue opere, grazie ad una  elaborazione tecnica originale e suggestiva, appaiono come in uno stato di continua metamorfosi, ora gonfiandosi, ora scavandosi, cosicché le tre dimensioni si rincorrono, si piegano, si tradiscono. Le tramature accurate, i tocchi d’oro non riescono a volte a trattenere la fuga di elementi in rilievo che sembrano volersi sottrarre all’apparente silenzio del fondo per impossessarsi di ogni vibrazione di luce; altre volte la proiezione è verso l’ “interiorità” dell’intaglio che è come uno scavo alla ricerca di sé dentro sé. La contrapposizione di superfici ora lucide, brillanti e geometricamente strutturate, ora scabre e popolate di segni, a tratti quasi miniate, traduce in maniera quanto mai immediata la tormentata ispirazione dell’artista che sussurra il suo verbo nella pacatezza di un colore che improvvisamente si fa urlo nella solennità del nero, nel rosso divino che, assumendo l’atemporalità dell’oro, sferza i confini del qui e ora e si fa eterno. Il tutto senza retorica, senza ridondanza, piuttosto con quella semplicità che in natura  sa essere spettacolo, turbamento, spavento; come in un temporale che è ombra e tremore, luce e vita.

                 Anna R.G. Rivelli

E' PACE

Non dorme la notte
ascolta
l'armonia dei pianeti
seduta sui tetti
con le gambe penzoloni

                  Anna R.G. Rivelli
            (da "Irriverenti geometrie" 1992)

Liberi (di leggere)

Non leggete come fanno i bambini per divertirvi, o come gli ambiziosi per istruirvi. No, leggete per vivere.

                       Gustave Flaubert