ERCOLE PIGNATELLI (o di una bugonia)


Non appena ho iniziato ad interessarmi di Ercole Pignatelli ho preso a cercare immagini delle  sue opere nel web e a sfogliare alcuni suoi cataloghi. Generalmente, infatti, mi avvicino agli artisti partendo dalle opere e non dalle biografie o dagli interventi critici che li riguardano; questo perché sono profondamente convinta del fatto che l’arte è una creatura viva e come tale non può essere come primo passo indagata senza in qualche modo offenderla e determinare alla fine una barriera tra noi e la sua voce. In quanto creatura viva, invece, essa va ascoltata, conosciuta empaticamente, cosicché possa scoccare quella sorta di scintilla d’amore che ce la farà conoscere profondamente senza sentire il bisogno di dover di necessità ancorare questa nostra conoscenza ad una minuziosa razionalità, senza dover cercare il messaggio più o meno astruso in una cosa, l’arte appunto, che il messaggio ce lo ha connaturato nel suo essere in quanto comunicazione e bellezza.
Non appena ho iniziato ad interessarmi di Ercole Pignatelli, dicevo, e a guardare le sue opere, mi sono venuti in mente dei versi del poeta che più amo.
“Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe/anche un pensiero…”
e ancora
“e l’azzurro che nasce, a corolle, negli anditi”
 “Vorrei essere fieno sul finire del giorno/ portato alla deriva/ fra campi di tabacco e ulivi…”
Versi di Vittorio Bodini, straordinario poeta contemporaneo (1914-1970), che con il nostro Artista condivide la città natia: Lecce. Io però non lo sapevo. L’ho scoperto solo dopo, quando finalmente mi sono accinta a leggere le note biografiche di Ercole Pignatelli. La cosa mi ha colpito molto, perché mi è apparso evidente che nelle sue opere, pur così europee, così internazionali,  palpita un indomito cuore del Sud che del suo essere ha saputo fare una cifra e non un discorso.
Sono dunque partita da qui, da questa suggestione, per innamorarmi di questo “ragazzo col diavolo in corpo” – come è stato definito da Alessandro Riva- che veleggia col suo intatto bagaglio di infanzia verso porti che non vuol trovare, mozzo per gioco, capitano per destino. E mi sono chiesta cos’è che mi ha riportato a Bodini, anche lui innamorato del suo Salento, anche lui lontano e vicino ad un tempo. Mi sono risposta. Nelle opere di Pignatelli si percepisce un medesimo panismo, un immedesimarsi in un paesaggio talmente interiorizzato che appare dalla sua stessa sparizione, un paesaggio che più si fa vaghezza, sogno, miraggio, più è capace di trasferire suoni, profumi, emozioni.  Se cerchiamo un tratto, infatti, uno solo che sia didascalico di un territorio, che ce lo marchi a fuoco in tutta la sua evidenza,  non lo troveremo mai; troviamo però allusioni simboliche, eco indistinte, memorie svagate che sono tanto più incisive in quanto non ci consentono di “leggere” ma ci costringono a “sentire”. Così, al di là del forte legame con Picasso (legame evidente dagli omaggi riservatigli nonché dichiarato dalla voce stessa di Pignatelli), al di là di una suggestione che resta suggestione mediterranea oltre che fatale incontro di spiriti, mito e fede di questo nostro straordinario artista è la vita. Una vita che è prima di tutto libertà, appartenenza a se stesso, cammino mai vincolato a schemi o a mode o a “maniere”, col gusto di soffermarsi ora, di accelerare il passo poi; vita che è un continuum, un fluire privo di contraddizioni tra spiritualità sfrontata e sacro materialismo.
Giovane, sempre giovane, ventenne ottuagenario, ha mantenuto lo sguardo dei suoi ritratti degli anni ’60 ; ed è quello lo sguardo con cui interroga e racconta l’esistenza, sia quando riscrive in una sorta di sua personale bugonia la vita che rinasce dalle rovine e dalla marcescenza (pensiamo ai “basamenti”, tronchi di colonne da cui sbucano fiori e frutti come capitelli, o ai teschi di animali che si riempiono di miraggi), sia quando il colore sboccia da una figura più inquietante che leggiadra, più allusione che figura ( come in “Vitalità”, opera del 1959, premiata e tanto discussa per essere sostanzialmente figura altra da se stessa).
E questo è sicuramente un altro tratto distintivo di Pignatelli; la sua è una pittura figurativa certo, ma tutt’altro che realista. La figura che si impone sulle sue tele, infatti, sia essa un corpo di donna, una struttura architettonica o una coppa traboccante di frutti, non comunica mai davvero se stessa, non descrive ma evoca. Accade così con le acrobate che, in un assioma di straripante rotondità, si offrono in torsioni innaturali che paradossalmente le naturalizzano, assimilandole ai lussureggianti elementi vegetali che le accompagnano; accade così con le rabdomanti che sembrano germinare da tralci turgidi, nascoste ed esposte coi loro rossi succosi come bacche mature, come appetibili coccole, insidie di un bosco incantato. Mai insomma la figura racconta, nemmeno con le geometrie ora arabeggianti ora metafisiche delle masserie che infrangono lo spazio-tempo e sono luoghi dell’immanenza e della trascendenza, terra e miraggio, paesaggi biblici sospesi eppure immagini della memoria dove l’acqua, a fiotti dai rubinetti o in rissa nel mare, è voce che spezza incantesimi e silenzi; le masserie, ove il bianco della calce salentina ( “…e tornerà/ il bianco per un attimo a brillare/ della calce, regina arsa e concreta/ di questi umili luoghi…” scriveva Bodini)  lascia posto a colori sognanti, vibranti di ombre di lune, sovrastati dalla sproporzione di alberi e frutti, uniformati dalla controra o dai notturni, sono luoghi dell’anima, sono favola bella contemplata a tratti, a tratti allontanata e minacciata da presenze ambigue, come i serpenti che non sai se hanno voglia di aggiungere o di togliere vita.
E poi c’è il colore, il colore che è protagonista assoluto, l’uno plurale che domina ovunque in ogni sfumatura e mai sfumato, mai incerto. Il colore è figura più della figura stessa, è proiezione del verbo. Tenue, lussurioso, incandescente, sia quando si offre uniforme in un piano, sia quando si strugge nell’ardimento di una marina o nella seduzione di arabeschi o viluppi vegetali, il colore è il battito che echeggia la vita; e il silenzio lo amplifica e laddove i grandi uccelli, sui grandi alberi dai grandi frutti occuperebbero volentieri la scena è il ritmo cromatico che ci emoziona e ci rimbomba un mondo che non è quello che vediamo; così nelle fruttiere stracolme di ogni blu, dove è solo la luce a denunciare il mistero irrisolto, o nel sensuale aprirsi carminio di melagrane su un tralcio è sempre il colore che dice “io sono” come in un credo antico. Un colore turgido, sensuale, rotondo; un colore martoriato, graffiato, frugato. Comunque esso sia, ha un effetto sinestetico: lo senti, lo tocchi, lo assapori.
Ed è questo il motivo per cui alla fine non vedi più Picasso, né il Salento, né l’infanzia impacchettata come le tele che un giovanissimo Pignatelli portava in giro da mostrare a galleristi e critici; non vedi più nulla perché tutto coesiste e si risolve nell’unica figura realistica presente: quella dell’Artista stesso. Qui però qualche dubbio ci sta. Che sia realistica intendo. A ben guardarlo, infatti, mentre da un ritratto ti fissa da dietro gli occhialini tondi nei panni di Toulouse Lautrec, il dubbio ti viene che sia un satiro dispettoso anche lui, o un Peter Pan irriverente che mentre tu ti affannai a cercargli un senso ti ha già trasportato nella sua isola che non c’è.

                                                         
                      Anna R.G. Rivelli

ANCHE IO "LOTTO MARZO"


"...è allora che sei al bivio e devi scegliere se vivere nel quadro o oltrepassare la cornice, se ti accontenti di restare pastorello in un presepio immobile o ti riappropri di un’energia che non ha nome e scorre, annullando confini e convenzioni, le moralissime idee perverse incasellate dentro un cruciverba di soluzioni sterili e stantie, contate come lettere di un alfabeto chiaro e limitato. Se resti dentro il quadro vivi; se esci sei vivo "
                                     (da "Se ci sono due alberi" di Anna R.G. Rivelli)