LA BASILICATA ANTIFASCISTA
L'esempio di Lavello
di Anna R.G. Rivelli
da "Il Roma" del 19 febbraio 2018
La cronaca politica di
questi giorni è monopolizzata dalla campagna elettorale: foto di più o meno
straripanti comitati che si aprono, declamazioni di programmi come liste dei
sogni, interviste a carattere più che altro agiografico, in cui ognuno si
dipinge per il santo che crede di essere quasi senza che nessuno obietti di una
virgola. E in questo caos calmo, in cui una legge elettorale che non lascia
scegliere quasi più nulla ha marginalizzato l’elettore, sottraendogli prima i
comizi in piazza, poi persino i manifesti elettorali, rischia di passare in
sordina quello che è invece un atto squisitamente Politico ( e la P maiuscola
non è casuale) che è stato posto in essere in una cittadina lucana, la quale
per questo meriterebbe di diventare “capitale” ed essere indicata come modello
di riferimento per tutto il nostro Paese. L’approvazione all’unanimità della
mozione che impegna l’amministrazione comunale “a non concedere spazi o suolo pubblico a coloro i quali non
garantiscano i valori sanciti dalla Costituzione, professando o praticando
comportamenti fascisti, razzisti, xenofobi o omofobi” pone, infatti, la
città di Lavello al vertice nella promozione di una Democrazia che il nostro
tempo sta rendendo sempre più fievole, deformandone il significato per
giustificare qualsiasi nefandezza spacciata per legittima opinione. Il fascismo,
però, non è un’opinione così come non lo sono il razzismo, la xenofobia e
l’omofobia. Quindi a chi, negando l’evidenza, continua a dire che in fondo la
Costituzione non è chiara in merito, va ricordato che la dodicesima tra le
disposizioni transitorie e finali della nostra Carta Costituzionale recita che “ è vietata la riorganizzazione, sotto
qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” e che tale disposizione è
ulteriormente chiarita dall’articolo 1 della legge Scelba nel quale è scritto
testualmente: “Ai fini della XII disposizione transitoria e finale
(comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito
fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone
non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito
fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta
politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla
Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della
Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività
alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto
partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. Quindi nessun divieto e nessuna
limitazione nel professare valori di destra se si fa riferimento ad una destra liberale
e democratica, ma il fascismo ( o forse anche meglio sarebbe oggi dire i fascismi)
sono tutt’altra cosa. Il fascismo per sua natura trova terreno di coltura
fertile nella nostra epoca, perché essa abbonda di tutte quelle condizioni che
servono ad alimentarlo, vale a dire la crisi economica, la povertà crescente,
l’esasperato stato di disuguaglianza sociale, il dilagante populismo e
l’assoluta disaffezione per la politica, ritenuta sempre più inaffidabile ed
incapace di risolvere i problemi concreti della gente. In questo clima ha gioco
facile chi, facendo leva sulla smemoratezza se non proprio sull’ignoranza, traccia
rappresentazioni idilliche del ventennio, dipingendolo come un tempo di ordine,
di sicurezza e di benessere, nel quale la diversità (lo straniero, l’omosessuale
ecc…) era bandita perché portatrice di disordine e guasto. L’odio così viene
elevato a categoria politica e il diverso da noi individuato come causa di ogni male e legittimo bersaglio di una sempre più
fomentata violenza. Il pensiero comune si fa acritico e aberrante, e in un
clima di stupidità saccente si finisce per cercare in ogni modo lo scontro, per agitare la Giornata del Ricordo contro
quella della Memoria, le foibe contro l’olocausto, facendo perdere di
significato due ricorrenze che dovrebbero essere vissute solo come incancellabile
lezione della Storia. Questo sta accadendo oggi. E sta accadendo da
una parte con l’assenso e il sostegno di gruppi politici e/o religiosi estremisti, dall’altro con il pavido silenzio degli
altri, troppo timorosi o cauti o collusi per difendere a viso aperto i valori
fondanti della nostra Repubblica.
Per questo va sottolineato il merito del Sindaco Sabino Altobello e della
sua giunta; vanno ringraziati l’ANPI e tutti coloro che a vario titolo si sono
impegnati fattivamente in difesa dei valori costituzionali e va chiesto
esplicitamente alle amministrazioni di tutti gli altri Comuni lucani che si
impegnino a fare altrettanto.
Anna R. G.
Rivelli
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LE
MANCATE DISSOCIAZIONI DEL GARANTE
Dal
livore per le minoranze all’esaltazione del fascio,
fu tutta una distrazione
di Anna
R. G. Rivelli
da “Il
Roma” dell’11 dicembre 2017
“Eletto non nominato! come ama ripetere con
piglio deciso”. Così Donato Fabbrizio scrive di Vincenzo Giuliano in un
post pubblicato nella pagina facebook dell’Associazione dei Liberi e Forti di
Basilicata il 29 novembre 2016. Eppure di questa elezione/non nomina la
Basilicata ha grande memoria, perché fu necessario allora (nel 2014)
affrettarsi a rimuovere più di qualche incompatibilità per poter affidare a
Giuliano il ruolo di Garante, compresa quella del limite massimo di età, che da
lì a pochi giorni sarebbe diventata irremovibile. Evidentemente, si potrebbe
sospettare, non esisteva uomo più adatto di lui a ricoprire questo ruolo. Anzi
di più, il ruolo si potrebbe dire creato di proposito per lui visto che, ci
ricorda sempre Fabbrizio, è “ruolo
istituito nella regione e mai ricoperto da nessuno prima di lui”. Sarà per
questo che lo stringato comunicato diffuso sabato scorso da Giuliano per
dissociarsi dal suo portavoce appare davvero poca cosa, troppo misero per poter
fare chiarezza sulle agghiaccianti esternazioni diffuse a mezzo stampa da Nigro
nei primi giorni di dicembre. Cominciamo col dire che Giuliano si dissocia da
una sola delle due ultime note (quella del giorno 8 dicembre) e non da quella
già fin troppo violenta ed offensiva pubblicata sul Roma il giorno 1 dicembre,
nota nella quale in sostanza si attribuiva la colpa del femminicidio alle donne
stesse, ree secondo lui/loro di emancipazione dalle situazioni di degrado
familiare. Sarebbe doveroso, quindi, che il Garante si dissociasse senza mezzi
termini anche dalla prima, abbandonando alla deriva il povero Nigro, sempre ammesso
che possa farlo, sempre ammesso che la nota sia stata scritta solo a due e non
piuttosto a quattro o persino a sei mani. Perché francamente due cose sono poco
convincenti in questa storia: la prima è che Nigro possa aver fatto tutto da
solo e che, non contento di aver già toppato la prima volta, abbia perseverato
e rincarato la dose senza minimamente consultarsi con Giuliano; insomma,
sarebbe una testa di ferro, e, obiettivamente, è difficile crederlo fino in
fondo, a meno che non sia lui stesso a sacramentare di aver fatto
maldestramente tutto di sua esclusiva iniziativa. Ma anche nell’ipotesi di
questa evenienza, risulta strano credere (e questa è la seconda cosa poco
convincente) che il Garante, la cui agiografica descrizione campeggia sulla
pagina dei Liberi e Forti, non si sia accorto mai che da molti mesi il suo
portavoce continuava a farla, sommessamente, sempre fuori dal vaso. Le due note
citate, infatti, entrambe di dicembre, non sono le uniche sottoscritte da Nigro
in qualità di portavoce e pubblicate negli ultimi mesi. Tra luglio e dicembre,
infatti, ce ne sono state altre, tutte contenenti esternazioni molto al limite
della condivisibilità per chi ricopre un ruolo di garanzia. Di luglio scorso è,
ad esempio, un articolo apparso sul Roma in cui Nigro scrive frasi del
tipo “L’impegno
politico viene solo riservato all’accoglienza dei profughi” e peggio “Qualche
mente eccelsa ha pensato bene di sostituire con i migranti i giovani emigranti,
adducendo la nobile motivazione dell’accoglienza, senza rendersi conto che in
questo modo avviene automaticamente la sostituzione etnica e soprattutto
religiosa”. Di agosto è invece un altro articolo innocuamente storico ( ma
la storia non è mai innocua! ) in cui si esaltano i “vescovi moralizzatori” che consideravano “i liberali uomini dissoluti” , si palesano sentimenti anti
unitari e si chiosa con un “ I liberali non erano tanto liberali….
D’altronde oggi la situazione non è cambiata col pensiero unico neo-liberale”.
Il 27 ottobre arriva poi una nuova nota sulla famiglia lucana. Anche qui il
portavoce si esalta “La famiglia lucana,
e non solo, è una risorsa importantissima, eppure è troppo trascurata di nostri
politici, che sono impegnatissimi invece a fare tutt’altro: ad esempio, a
difendere i diritti dei gay, delle coppie di fatto, dei figli pretesi ma non
fatti, degli extracomunitari che approdano tutti con gli smartphone…”; continua
così: “Questa società abietta e
rinnegatrice dei valori morali fa di tutto e di più per tutte le minoranze
pretendenti di diritti, ma non fa nulla per la famiglia, già disgregata dalla
piaga del divorzio”. Poi, prima di scatenarsi con frasi del tipo “Noi abbiamo sempre combattuto contro i
Saraceni”, “Certi atteggiamenti ci
ricordano la lupara” o addirittura “era
meglio il Fascio!”, Nigro propone una frase (“Già Lenin diceva: volete distruggere una società? Distruggete la
morale! E quella vi cadrà in mano come una pera cotta! Neppure i sovietici
avevano distrutto la famiglia…”) che deve essergli tanto cara da averla
rispolverata pari pari nella sua nota dell’8 dicembre, quella da cui Giuliano
dice di dissociarsi. Possibile che
Giuliano in tutti questi mesi non si sia mai accorto di niente? Né
dell’esaltazione del Fascio, né del livore contro “tutte le minoranze pretendenti di diritti”, né dei giudizi
approssimativi sugli extracomunitari? Se anche fosse così, non sarebbe meno
colpevole, perché la distrazione ad oltranza non è contemplata tra le doti di
un Garante.
Ma nel comunicato diffuso sabato,
Giuliano scrive anche: “In merito poi al movimento “Liberi e
Forti di Basilicata” preciso che dal 2014 non ne faccio più parte", credendo evidentemente così di togliersi
da qualsiasi imbarazzo. Purtroppo per lui, però, le testimonianze del fatto che
proprio lui è stato amministratore unico della pagina facebook dei Liberi e
Forti di Basilicata (per ben 8 anni e fino a tre o 4 giorni fa) restano negli
screenshot e non è rimedio sufficiente ( anzi è piuttosto indice di “colpevolezza”)
l’aver in fretta e furia ceduto il ruolo a quel Donato Fabbrizio (peraltro da lui stesso aggiunto al gruppo
circa 5 anni fa) che, nella pagina del movimento politico, funge da portavoce
del Garante, diffondendo a piene mani comunicati delle varie iniziative,
compreso quello che, il 28 maggio, testimonia di un garante tanto super partes
che va a parlare di fede ai ragazzi della scuola media La Vista. Inoltre, tanto
per completare il quadro, lo stesso Giuliano da amministratore condivideva i
post di “Fuoco vivo” (dopo le ultime polemiche magicamente spariti), band di
propaganda ultracattolica, nata a Satriano di Lucania, e fondata, tra gli
altri, da Rocco e Antonio Giuliano, due giovani musicisti che con il Garante
non condividono probabilmente soltanto il cognome.
Alla luce di questo, forse opportuna sarebbe
una verifica anche da parte di chi lo ha nominato ops! eletto) perché, benché sia ormai
consuetudine (consuetudine a cui non
vogliamo tuttavia abituarci) che le cariche vengano distribuite in rapporto a
convenienze ed accordi politici e non già a meriti e idoneità ai ruoli, sarebbe
già qualcosa se, tra gli sponsorizzati, si scegliessero almeno i meno peggio.
Cosicché non basta fare adesso di Nigro
il capro espiatorio, perché da quanto scritto negli ultimi sei mesi Giuliano
doveva accorgersi e dissociarsi già da molto tempo. Discriminazione, omofobia,
razzismo, approssimazione, populismo… tutte cose che si sintetizzano in quel “Era meglio il Fascio!” da cui un Garante avrebbe dovuto prendere
distanze immediate e non solo apparenti.
°°°0O0°°°
THE VOICE
(La voce che persevera e rincara la
dose di chi è?)
di Anna R.G.
Rivelli
da "Il Roma" dell'8 dicembre 2017
Femminicidio: alla richiesta di chiarimenti, fatta al
Garante per l’infanzia e per l’adolescenza della Regione Basilicata dalle
pagine di questo giornale, Nigro risponde al posto di Giuliano. Ci domandiamo:
è ancora una volta il portavoce che parla al posto della “voce”? Se è così,
inorridiamo; se non è così, ci domandiamo perché il solerte portavoce non
annovera tra i mali che affliggono la nostra società anche il suicidio. E già,
perché quello di Vincenzo Giuliano che, ostinandosi a non rispondere, si fa rappresentare
da codesto signore, è un suicidio bello e buono; e non già un suicidio
assistito, ma un sparo alla tempia, peraltro mal fatto e perciò ancora più
doloroso. Lo scritto di Nigro è, infatti, bizzarramente farneticante e ancora
una volta, tra le citazioni pseudo-colte usate alla ca…suale maniera e il
maccheronico repertorio di oscurantismo biblico (“Chi è che
ci può essere dietro questo infame progetto se non Satana?” arriva
a chiedersi questa volta), esprime una violenza e una ignoranza senza pari.
Perché di ignoranza si tratta se uno arriva persino ad attaccare Pittella ( che
non staremo noi qui a difendere non fosse altro perché questa nomina di
“sospetta” garanzia l’ha fatta lui) sostenendo che “Tutto si fa per i femminicidi, per
i gay, per i disabili, per i migranti, per questa o per quell’altra
associazione, per l’ecologismo ipocrita e fanatico dei radical chic in un
pianeta inquinatissimo ed al rischio del collasso climatico, ma niente si fa
più per la famiglia…”. Dunque è evidente che, preso dal furore
censorio, Nigro ignora completamente ciò di cui sta parlando; affermare che si
fa tutto per i femminicidi, per i gay, per i disabili e nulla per la famiglia
significa non farcela proprio a capire che le famiglie distrutte da un
femminicidio, minate dalla discriminazione o sofferenti per la presenza di un
malato grave sono proprio quelle più deboli e quindi quelle più bisognose di
aiuto; o ritiene, il Nigro o persino il Garante, che le donne morte, i gay e i
disabili ( oscenamente tirati in ballo nella sua fanatica requisitoria) siano
entità astratte? Ritiene l’uno (o entrambi) che le donne morte, i gay e i
disabili non siano parte di una famiglia? O ritiene l’uno ( o entrambi) che le
famiglie da aiutare siano quelle da reclame di biscotti? O magari quelle
patriarcali intese nel peggior senso, così come ha scritto il portavoce con la
solita dualistica contrapposizione padre=positività, madre/negatività? Poi
arriva anche la tirata in odore di razzismo (“E poi perché i figli degli
extracomunitari non devono pagare il nido, la mensa, il mutuo, il pronto
soccorso, le cure mediche ed i nostri devono pagare?”) e quella in
odore di pervicace misoginia, con lo sbeffeggiamento delle donne “emancipate e
libere”, accusate neanche tanto velatamente di immoralità, e
la minimizzazione del fenomeno femminicidio (“Perché, invece di pensare solo
al femminicidio, con tutto il rispetto per le vittime…”); l’apice
del climax arriva poi con la tirata ultracattolico-nazionalista (“Non a caso
tutti i grandi regimi totalitari, di destra e di manca – neppure in URSS –
avevano toccato la famiglia […] E decidendo di far fuori la famiglia ha anche
decretato la fine della religione e della patria).
Insomma, se è vero, come Nigro scrive, che Giuliano
avrebbe presentato al governo Pittella “notevoli proposte risolutive di problemi sociali legati
all’infanzia… proposte che rivoluzionerebbero il sistema sociale”, non
resta che rammaricarci del fatto che lo stesso Nigro non sia ancora
adolescente, perché magari, chissà, una di queste proposte avrebbe risolto
anche il suo caso.
Ciò detto, è ovvio che non si può far altro che
rinnovare l’invito al Garante ad esprimersi per spiegare se è lui o no la
“voce” che Nigro porta. Non si può che sollecitarlo a rispondere e a
dissociarsi, perché è chiaro che lo stanno ( o si sta) “suicidando” e il
suicidio non è né morale né cristiano. Questo suo, poi, non è neanche stoico.
Lo scritto di Nigro a cui si fa
riferimento è disponibile a questo link
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L’ALTRO
VOLTO DELLA MISOGINIA
di Anna R.G. Rivelli
da “IL ROMA”
del 4 dicembre 2017
Solo pochi giorni fa, il 25 novembre, si è celebrata
come ogni anno la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ricorrenza
sacrosanta se si considera che solo in Italia (nella civilissima Italia!) nei
primi dieci mesi di quest’anno sono state uccise ben 114 donne, un terzo delle
quali per mano del partner. Fortunatamente il livello di attenzione sul
problema si sta alzando, le vittime cominciano ad avvertire un maggiore
sostegno da parte delle istituzioni e della società e, soprattutto, si è
acquisita la consapevolezza che bisogna intervenire alla radice se si vuole debellare
quello che è un problema di natura squisitamente culturale, perché il sangue
delle donne non sporca soltanto le mani degli esecutori finali, ma
irrimediabilmente macchia la coscienza di quanti la violenza l’hanno fomentata
e continuano a fomentarla. La misoginia, infatti, non ha unicamente il volto
losco e la mano lurida delle stupratore o dell’omicida; può avere anche la
stupida ironia del ragazzotto che sui social sbeffeggia le donne che manifestano,
il doppiopetto del politico che propone
mozioni e leggi discriminatorie o il piglio sentenzioso del portavoce di
un’associazione o di un movimento, uno a caso, come per esempio quello di
“Liberi e forti” di Basilicata. Sul Roma del primo dicembre scorso, infatti, il
signor Nigro si è prodotto in un commento sul tema che, più che da un
quotidiano del XXI secolo, pare tratto dalla satira di Giovenale contro le
donne. “ Da dove vengano tali mostruosità, che origine abbiano, questo vuoi
sapere? – scriveva nel II secolo d.C. il poeta latino, scandalizzato
dall’emancipazione femminile - Una
condizione modesta garantiva un tempo la castità delle donne latine; le
distoglievano dal contagio dei vizi la casa minuscola, la fatica, il sonno
limitato, le mani rovinate e irruvidite dalla lana etrusca, l'assillo di
Annibale alle porte di Roma” . “Perché
questo fenomeno cresce a vista d’occhio? – scriveva invece l’altro giorno Nigro,
parlando del femminicidio - È una delle piaghe d’Egitto in risposta alla piaga del divorzio” La differenza tra i due, al di là di quella
temporale di più di qualche secolo, sta nel fatto che il primo si prendeva sul
serio assai meno del secondo. Nigro, infatti, continua con toni patetici a
citare l’ordine divino violato, i figli sbandati e disorientati, Freud, gli
adulteri, la gelosia come sentimento naturale, il fuoco dal cielo, il diluvio
universale, Sodoma, Gomorra, la malattia mortale, l’atomismo sociale e tutta
una serie di assurde amenità infilate una dietro l’altra più o meno alla
rinfusa per arrivare a sentenziare che questo
tumore (cioè il divorzio) distruggerà
l’intera società occidentale; alla fine suggerisce convinto il modo di
debellare il femminicidio “Volete guarire
questo male...? -scrive- Ebbene!
Togliete il divorzio e l’aborto”. Insomma,
talmente è assurdo e paradossale ciò che Nigro scrive e talmente violento è il
sentimento misogino che anima le sue parole, che forse se quel povero Freud,
tirato in ballo a vanvera in cotanto sermone, potesse avere la possibilità di
dire la sua, ne saprebbe ben spiegare l’origine. Tuttavia Nigro è un portavoce
e un portavoce non esprime il proprio pensiero, ma quello del gruppo che
rappresenta. E il gruppo che Nigro, in qualità di portavoce, rappresenta si
chiama “Liberi e Forti”, associazione di
formazione culturale e politica, come recitano le informazioni della pagina
facebook dedicata. Ma, meraviglia delle meraviglie, dalle stesse note
informative si può apprendere che, da ben otto anni, amministratore della
pagina è Vincenzo Giuliano, il garante per l’infanzia e l’adolescenza della
Regione Basilicata. Così, di fronte ad una notizia che lascia quanto meno
perplessi, continuando la ricerca, si giunge ad appurare che Giuliano,
nell’anno in cui fu nominato garante, di questa “Associazione Liberi e Forti”
era addirittura il presidente ( e non si capisce se ancora lo sia) e in tale
ruolo già partecipava a presentazioni di nuove formazioni politiche insieme ad
altri campioni della promozione dei diritti e delle pari opportunità, come,
tanto per citare l’esimio, il consigliere Aurelio Pace.
A questo punto è obbligatorio chiedere al dottor Giuliano se
quella raffica di oscenità che il portavoce Nigro ha impudentemente scritto e
pubblicato rappresenta la summa della filosofia dell’Associazione e, di
conseguenza, anche di lui che ne è stato il presidente e ne è da otto anni
l’amministratore della comunicazione social. E se chiedere è obbligatorio,
doveroso da parte sua sarebbe rispondere, perché delle due l’una: o il Garante
si dissocia apertamente e totalmente dalle parole, e soprattutto dal pensiero,
di chi definisce adultere le donne divorziate e
compatisce invece i “poveri padri
divorziati”, oppure deve spiegare quale garanzia può mai rappresentare nei
confronti di quella infanzia e quella adolescenza che spesso vive proprio nella
famiglia l’angoscia delle più subdole violenze. Nigro scrive: “Il femminicidio è la conseguenza del
disagio psicosociale prodotto dallo sconvolgimento e dallo sfaldamento del nido
familiare”; e ancora: “La gelosia è
un sentimento naturale, anche se portato in extremis può degenerare in
violenza”; e come se non bastasse aggiunge: “Provate a parlar male di un gay, e vi scateneranno contro l’inferno…”.
Cosa di tutto ciò pensa il dottor Giuliano? Sono queste le sue parole, i suoi
sentimenti, la visione del mondo che guida la sua azione di garante? È
questa la considerazione che avrà delle madri che fuggono dalla violenza di un
uomo? Non saprà far di meglio che definirle adultere? E compatirà i padri
violenti? E come garantirà la libertà di una adolescente che volesse
emanciparsi da un padre padrone? Lo scenario si prospetta veramente molto inquietante.
In attesa di avere risposta e nella speranza di sentire il dottor Giuliano
dissociarsi categoricamente dalle parole del portavoce (che nel qual caso
meglio farebbe a spiegare chi rappresenta se non solamente se stesso), va
chiesto anche alle istituzioni, ovviamente nelle persone di coloro che fanno le nomine in ruoli così
importanti e delicati, se prima di riempire le caselle dei loro organigrammi,
si pongono qualche domanda, si leggono qualche curriculum, si accorgono di
qualche evidente incompatibilità.
L'articolo di Nigro a cui si fa riferimento è reperibile a questo link http://noicittadinilucani.ilcannocchiale.it/post/2858856.html
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SU
UNA PANCHINA ROSSA
Anna
R.G. Rivelli
da
“Il Roma” del 25 novembre 2017
Tutte
le celebrazioni hanno un senso se il senso sappiamo darglielo, altrimenti
diventano pura formalità e finiscono per sgretolare piuttosto che rafforzare il
messaggio che vorrebbero portare in sé. Perciò alla giornata del 25 novembre,
Giornata internazionale contro la violenza di genere, siamo chiamati a dare il
senso più denso e concreto possibile, senso che possa sì esprimersi nelle varie
manifestazioni ed eventi che per l’occasione vengono organizzati, ma possa
anche travalicarli, per restare non come riflessione occasionale di un momento,
ma come quotidiano stile di pensiero e di comportamento di ciascuno di noi. Perché
proprio di ciascuno di noi si tratta quando si parla di violenza di genere.
Siamo tutti coinvolti a vario titolo, tutti attori sulla scena dove,
diversamente da quanto ancora in troppi credono, non è una fiction ad essere rappresentata, ma
una delle più evidenti tragedie del nostro tempo, tragedia che non conosce
confini né geografici né culturali e fa scorrere un contatore di morte (morte
di corpo e di anima) che non può essere ignorato da nessuno. Per questo occorre
parlarne e parlarne ogni giorno.
La
violenza di genere si esprime intorno a noi, anche qui, nella nostra città e
nella nostra regione, meno nascosta di quanto possa sembrare. Quasi sempre
nasce nelle parole e colpisce le donne sin da quando sono bambine; parole
“innocenti”, spesso tramandate da una tradizione socio-culturale ancora da
molti ritenuta esemplare punto di riferimento, che sono acqua cheta che scava. Non
di rado essa si maschera sotto
appellativi edulcoranti (galanteria,
spirito di iniziativa, intraprendenza, machismo…) e contemporaneamente maschera
quel sottile senso di inadeguatezza che certi uomini provano di fronte alle
donne che non corrispondono più al modello interiorizzato: le donne o sante o
streghe. Per costoro se sante, le donne non avrebbero che da starsene col
sorriso dipinto, immobili sugli altari; se streghe altro non meriterebbero che
il rogo. E così passare dalle parole ai fatti è spesso un attimo; e i fatti non
sono solo le percosse fino alla morte, non sono solo gli stupri, ma anche
quelle molestie attraverso le quali si tenta il dominio e la prevaricazione
sull’altro, magari approfittando del suo stato di difficoltà o di bisogno.
Questa, purtroppo, è ancora quotidianità a cui nessuna, nessuna donna è
sfuggita del tutto nel corso della sua vita.
Ma se parlarne è necessario, parlarne nel modo
giusto è vitale, perché tanto la banalizzazione quanto l’esasperazione del tema
sono ostacoli insidiosi per qualsiasi tentativo di risoluzione del problema. E
purtroppo banalizzazione ed esasperazione caratterizzano il più delle volte gli
agoni televisivi, specie in questi giorni in cui il mondo sembra aver
improvvisamente scoperto il maschio alfa, come fosse razza finora sconosciuta e
aliena, e la fanciulla modello Biancaneve che, sognando il principe, non pensa
di doversi difendere dai nani. Questa in sostanza è la semplificazione che si
sta facendo di un problema che semplice non è e che è invece tanto più
complesso quanto più antico e duraturo. Verissimo è che il coraggio di parlare
per chi è vittima di violenza ha tempi di maturazione lunghissimi, tempi che
servono a metabolizzare almeno un poco il dolore e a superare la vergogna che
sempre perseguita le vittime, ma si è sicuri di fare un buon servizio alla
causa spettacolarizzando certe prese di
coscienza, facendone tema di una narrazione superficiale in cui il sistema dei
personaggi si stereotipizza e ripete sempre uguale, privo di sfumature, condito
da lacrimoni scenografici, commenti inutili e applausi solidali di un pubblico
che un attimo dopo è disposto ad esaltare il ripetersi di insulsi cliché in idiot-show
come “Uomini e donne”? Non è, tanta
banalizzazione, violenza anch’essa che si riversa sulle vittime più deboli,
quelle che non sono attrici famose, non sono miss rampanti, e che con minore
afflato solidale restano ad affrontare la quotidianità laddove i riflettori non
ci sono e quel can can dei media risuona come voce di un mondo a parte, di un
Eden dove tutto luccica e tutto può avvenire senza danno? Insomma, una cosa è
la testimonianza, un’altra la teatralità, una cosa la condanna sacrosanta,
un’altra la generalizzazione. Se il dolore diventa spettacolo, perde la
connotazione di realtà per acquisire quella di finzione; e la finzione si
archivia facilmente tra le favole, cosicché anche la possibilità di salvarsi
nella percezione delle donne “comuni” finisce per diventare meno che una
ipotesi remota. D’altro canto catalogare come violenza anche ciò che violenza
non è, ribaltare la caccia alle streghe urlando al maschio in quanto maschio,
rifiutare i distinguo tra un’azione inopportuna e una violenta, significa
potenziare le difese dei colpevoli nella nebbia di un proverbiale se tutto è
male niente è male.
E
dunque impegniamoci tutti a riempire di senso la giornata del 25 novembre. La
violenza di genere va denunciata. Parliamone sempre. E parliamone bene.
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SE
LE PAROLE NON SONO CHIACCHIERE
di Anna R. G. Rivelli
“Teoria gender,
secondo gli autori, non è una forzatura, ma è la sintesi degli studi di genere,
con una pianificata strategia di imposizione di questa dottrina controversa nei
piani di studio dagli asili alle scuole di ogni grado. Prevede anche esercizi
pratici di mortificazione emotiva e corporale, come il proposito di vestire
maschietti da femminucce, ed altre pratiche raccapriccianti”.
Bene è specificare subito: questa è la frase che, sul sito
del Mibact, conclude la breve presentazione del libro “Gender, ascesa e
dittatura della teoria che non esiste”.
Sì, è vero: quell’ “esercizi pratici di
mortificazione emotiva e corporale” che sarebbero propinati a bambini delle
scuole di ogni ordine e grado ha un che di estremamente inquietante, sembra
addirittura una citazione estrapolata da un qualche antichissimo manoscritto,
espressione delle tappe più oscure della nostra civiltà. Ma questo è. Il libro,
di cui è orgoglioso coautore il consigliere regionale Aurelio Pace, è stato
pubblicato meno di due anni orsono e fa mostra di sé, con il suo indice ben in
vista per invogliare improbabili lettori, su siti di e-commerce e siti “specializzati” nell’ossessione del
gender.
La “teoria gender non
esiste”, ma a scuola i maschietti mettano la gonna. Il “genere è liquido”, ma
se vuoi “tornare etero” il “genere” diventa “solido”: vai perseguitato. Gli
omosessuali non integralisti del gender sono “omofobi”: i bambini si devono
vendere. Quando Cenerentola era ariana, pardon lesbica, così vogliono
sponsor e poteri forti. La pianificazione e l’aggressione del gender ai
bambini di ogni età ed ai docenti. Questi
sono solo alcuni dei titoli dei più di venti capitoli che costituiscono il
libro. È
evidente che non è necessario aggiungere altro per doversi schierare dalla
parte del segretario nazionale dell’Arcigay, apprezzando e sottoscrivendo la
sua presa di posizione contro la possibile elezione di Aurelio Pace in un ruolo
di garanzia quale dovrebbe essere quello del Presidente del Consiglio
regionale. “Aveva già dell’incredibile il fatto che un profilo come
quello di Aurelio Pace fosse considerato papabile per la presidenza del
Consiglio regionale lucano, con maggioranza di centrosinistra - scrive Gabriele Piazzoni nel suo duro
comunicato; e aggiunge - l’elezione del
consigliere Aurelio Pace alla presidenza è un errore da non commettere, perché
rappresenterebbe una legittimazione se non addirittura una promozione della sua
azione omofoba e discriminatoria. In tema di uguaglianza e di diritti occorre
che la politica dica senza ambiguità da che parte sta”. Ed è soprattutto
questa sua domanda che è necessario condividere per capire, noi cittadini
prossimi peraltro a nuove elezioni, se è carne o pesce questa nostra
rappresentanza istituzionale. È
necessario capire e, perché noi capiamo, è necessario che si spieghino bene il
Presidente Pittella e tutto il
Consiglio. A questo punto non bastano più neppure le uscite impreviste, le
fughe dall’aula, il numero legale che viene meno e la politica in stallo nelle
catene degli accordi temerari e sconsiderati che null’altro hanno in conto che
una logica di spartizione. Sono uomini o caporali questi nostri consiglieri? Hanno
o non hanno il coraggio del proprio pensiero e delle proprie azioni? E quello
che pensano in teoria, hanno la volontà di metterlo in pratica o la teoria gli
serve soltanto per sollazzare l’ego elettorale di qualcuno? Queste sono le
domande. A Mario Polese, per esempio. Nella quaranteseiesima seduta consiliare,
a luglio di due anni fa, Polese pronunciava frasi forti nel chiedere, con una
sua ottima mozione, l’adesione della Regione Basilicata alla rete READI (Rete
nazionale delle amministrazioni pubbliche anti-discriminanzione per
orientamento sessuale ed identità di genere). Asseriva “che le persone omosessuali e transessuali sono ancora a forte rischio
di discriminazione, laddove perduri una cultura condizionata da stereotipi e
pregiudizi”; e controbatteva
veementemente alle osservazioni del Consigliere Rosa con queste testuali
parole: “È evidente che purtroppo siamo ancora in una fase di grande
arretratezza culturale, per cui c’è la necessità di rimarcare una tutela di
diritti che sono diritti essenziali”. Sembra legittimo perciò chiedersi se
credeva a quello che diceva allora chi oggi, più che della citazione di Ban
Ki-moon (“Lasciate che lo dica chiaro e
forte: le persone LGBT hanno gli stessi diritti umani di qualunque altra
persona. Anch’esse sono nate libere ed eguali”) sapientemente utilizzata in
quella medesima seduta consiliare, subisce il fascino dell’accordicchio che
nemmeno serve a garantire le alleanze (dato che espressione dell’alleanza è già
Franco Mollica), ma solo meschinamente le aspirazioni di chi alla pancia degli
sprovveduti dà in pasto il dolore dei discriminati, contemporaneamente sfamando
e stimolando paure oscurantiste. E gli altri 14 su 15 votanti favorevoli di
quella mozione dove sono? Cosa dicono oggi ? E il Presidente Pittella ( uno dei
fuori per caso durante la votazione sulla famigerata “mozione antigender” dello
stesso Pace) si distrae ancora una volta o, in scienza e coscienza, decide di
perseguire il suo fine politico, snobbando e ignorando le legittime istanze di
chi crede davvero che sia necessario che le Istituzioni democratiche, prima di
tutti, rimarchino la tutela dei diritti
che siano diritti di tutti perché le
persone omosessuali e transessuali sono ancora a forte rischio di
discriminazione, laddove perduri una cultura condizionata da stereotipi e
pregiudizi?
La politica
perciò dica apertamente da che parte sta. E se crede davvero che sia in atto
una pianificazione dell’aggressione gender ai bambini di ogni età, elegga pure
Pace suo Presidente. Suo, appunto. Suo di quel manipolo del Consiglio. La
Regione Basilicata, invece, “riconosce la
persona come centro di valore, soggetto di diritti e doveri senza distinzione
alcuna e considera l’identità personale di ogni individuo come una qualità
assoluta, unica e irripetibile… concorre alla tutela dei diritti della persona
e opera per superare le discriminazioni legate ad ogni aspetto della condizione
umana e sociale… rifiuta ogni forma di violenza e discriminazione, opera per
prevenirne e rimuoverne le cause …” (art.5 dello Statuto Regionale).
°°°0O0°°°
DA QUALE PULPITO
di Anna R. G. Rivelli
da "Il Roma" del 27 settembre 2017
Basilicata: tempi duri per i poveri cristi! E sì che quella
della edilizia popolare è un’emergenza un po’ ovunque in Italia, ma almeno per
il Re dell’Universo, almeno in una terra in cui la monarchia è così sentita che
i decreti regi non si abrogano mai nel cuore dei VIP, le cose dovrebbero andare
diversamente. E invece…
Sfrattato dalle stanze della Regione più di tre anni orsono,
all’apparir sulla scena dell’assessore Franconi che per quell’atto ( e per
null’altro) sarà evidentemente ricordata, il povero Cristo vagolava smarrito
per la città, perseguitato da chi lo difendeva più ancora che da chi una casa
gliel’avrebbe pure assegnata, comoda e
sacra, purché non comunicante con quella dello Stato. Pareva smarrito il
poverino, perché, un po’ sovrano e un po’ clochar, godeva di portavoce mai nominati
e continuava a passare per quello che non era, tra preghiere di riparazione
seminate a destra e a manca per una città in disarmo. Poi finalmente, la
Chiesa.
La Chiesa è casa di Cristo per eccellenza. Era casa di Cristo
per eccellenza. E già, perché dopo il comizio non proprio ben riuscito del
Sindaco De Luca in piazza Matteotti, nello scorso mese di Giugno, l’agone
politico dell’amministrazione cittadina necessitava di spazi più sicuri. E
quali migliori di quelli della Chiesa? “O no!”deve aver esclamato il nostro
povero Cristo che paziente, sì è paziente, ma fino a un certo punto. In realtà
tra una scusa e l’altra, una cartaccia in terra e un cassonetto strapieno,
l’umido che ti marcisce in casa e le bottiglie rotte nel centro storico,
l’amministrazione in forze ha occupato la casa del Signore, anzi le case,
cosicché da un quartiere all’altro, da una parrocchia all’altra, da un San
Pietro a un San Rocco mi sa che il Cristo ha da cercarsi nuova casa. Si
domanda, infatti, Lui come noi ( e strano è che non se lo domandino i
professionisti del Padrenostro) se è veramente consono che i comizi si facciano
in chiesa; e già che parlare di “monnezza” nella casa di Dio non è che sembri
proprio rispettoso, ma se alla monnezza fisica, si aggiunge pure quella immateriale
delle “prediche”di chi va a ad autocelebrarsi, dando numeri e cifre,
sostituendosi da un lato al sacerdote, dall’altro al santo stesso, forse
qualche domanda bisogna farsela, o magari farla anche ai parroci, o a chi va a
pregare davanti ai musei ma poi chiude gli occhi sui mercanti nel tempio. Le
foto apparse sui giornali dell’assessore Coviello e del Sindaco che pontificano
sugli altari dovrebbero farci rabbrividire, perché i passati più oscuri
ritornano, perché snocciolare in chiesa meriti autoassegnatisi mentre in
municipio tante interrogazioni ancora attendono risposta è l’ennesima insolenza
fatta ai cittadini. Da quale pulpito, insomma, arriva questa ennesima predica?!
E la differenziata? E la raccolta porta a porta? E il decoro della città? Fuori
dai templi, siamo ancora in attesa di un miracolo.
°°°0O0°°°
IL SELFICIDIO DEI POLITICI
da Gianni Pittella a Aurelio Pace
di Anna R. G. Rivelli
da "Il Roma" del 31 agosto 2017
da "Il Roma" del 31 agosto 2017
Estate, tempo di
sole, mare e folleggiamenti, per fortuna ti stiamo archiviando! Le vacanze,
infatti, sono sempre più vacanti di buon senso e la smania di apparire, troppo
spesso per quello che non si è davvero, spinge a svarioni che, tra il ridicolo
e il patetico, ci riportano la fotografia di una società grottesca la quale, se
al sole estivo può sembrare solo allegramente imbecille, con le prime luci
mitigate di settembre ci riporterà bruscamente a meditare sulla triste realtà. Se
è vero, infatti, che una risata ci seppellirà, c’è da giurare che prima della
sepoltura saranno in molti a morire di selfie. Del resto la selfimania ormai
contagia tutti, cosicché se per puro caso un nemico ci volesse tendere un
agguato, se ci cercasse l’Isis o il nostro dietologo volesse controllare se stiamo
seguendo alla lettera la prescrizione di dieta, basterebbe aprire la pagina
facebook o instagram e il gioco sarebbe fatto. E può succedere, come riportato dalla
stampa, che uno qualsiasi dei nostri vicini posti la foto di un meraviglioso
mare delle Seychelles, favoleggiando di vacanze da sogno, proprio mentre noi lo
vediamo in mutande a prendere il sole sul suo balcone. Questo perché alla
smania del selfie vero, che non ci risparmia né piedi in primo piano, né sedute
di fisioterapia, né documentate notizie di influenze e vari accidenti, si è
aggiunta la smania del selfie taroccato, buono a mostrare quello che vorremmo
essere o fare o far vedere agli altri di una vita che, evidentemente, riteniamo
insoddisfacente o imperfetta. E la cosa non risparmia gli uomini politici,
anzi! A dover esclamare “Quoque tu, selfie…!” sono infatti in molti, colpiti a
tradimento dal pugnale di quella che ritenevano una amorevole emanazione (un
figlio quasi) della propria incontenibile frenesia di autopromozione. Non è
passato neanche un mese, infatti, da quando un affranto Gianni Pittella,
sciarparossamunito, postava su facebook una sorta di lamento dell’emigrante,
cercando di sollecitare un’ammirata e pietosa empatia per il povero
parlamentare europeo costretto a lasciare la famiglia in piena estate per
recarsi in Inghilterra ad imparare la lingua per il nostro bene, per noi che, quando
andrà in pensione, potremo riconoscergli finalmente l’accento di un vero lord
anglolauriota. Inutile dire che di empatia il nostro Gianni ne ha suscitata
poca, ma lui, recidivo, ha continuato ad aggiornarci sulla sua vita d’oltremanica
fino a tranquillizzarci (perché in realtà eravamo tutti molto in ansia) del suo
ritorno in famiglia per l’ultima settimana di agosto. Ma archiviato Gianni,
rasserenati sulla sua condizione, non si fa in tempo a tirare il respiro che
eccone avanti un altro. Povero, povero Aurelio Pace! Anche per lui toccherà
impietosirsi. Il 27 agosto, infatti, posta una foto della sua bella famigliola
in aeroporto, in attesa di un volo che tarda di qualche ora, così ci aggiorna
sul bel sorriso dei suoi bambini e sulla temerarietà del suo barbiere che lo ha
evidentemente “lucidato” troppo. Tutto bene però, sono tutti allegri nonostante
l’attesa, fanno shopping e noi siamo tutti tranquilli. Il 28 agosto, a metà
pomeriggio, il nostro Consigliere ci fa sapere che è a Cagliari e ci mostra le
foto di una bella mostra sul Barocco nel Mediterraneo. Tutto bene, dunque. Anzi
no. Nello stesso post, infatti, scrive “Oggi turisti, domani convegno
all'Università di Cagliari.Relax e lavoro”. E qui cominciamo a preoccuparci; ma che diamine, insomma!
Un pover’uomo parte per pochi giorni di vacanza, sicuramente autospesati, e
deve pure lavorare? Ed ecco che una pietosa empatia comincia a farsi largo
nella considerazione del cittadino medio. L’acme del dispiacere, però, il
cittadino medio potrà raggiungerlo soltanto il giorno dopo, quando, il 29
agosto, alle 9:31 del mattino, Pace scrive: “Cagliari,
Università. Parliamo della nostra Basilicata a chi è parte originale del
Mediterraneo”, accompagnando l’annuncio con le immancabili foto, tra le
quali una di lui, oratore, in piena attività. E qui il dolore del cittadino si
fa lancinante. “Ma come?- si chiede- alle 9:30, in vacanza, in giacca scura,
con quel caldo africano, è già nel pieno ritmo di un convegno? Bah! Sarà un
convegno sull’insonnia” – si dice ancora il cittadino e si consola notando che
a rinfrescare le ugole certamente secche c’è sul tavolo del nostro relatore una
bottiglietta dal tappo arancione, molto Gaudiannellostyle. Parlano di
Basilicata, a Cagliari, il Consigliere –persona seria- magari ha preteso l’acqua lucana. Ma poiché il
lucano è anche curioso ed ha pure la sindrome dell’abbandono, quando sente che
si parla di Basilicata oltre i confini regionali, si inorgoglisce e ne vorrebbe
sapere di più. Ed ecco che si mette a cercare notizie di questo convegno
agostano, che setaccia il web, che non contento contatta l’Università di
Cagliari per averne notizia, che si fa palmo a palmo le pagine degli eventi di
tutte le facoltà, ma niente. Ad agosto nulla, nessun evento, nessun convegno,
niente Basilicata nei pensieri dei sardi. Delusione! “Ma com’è possibile - si
chiede il cittadino medio- se nella foto postata Aurelio Pace sta davvero ad un
tavolo di relatori?” E così guarda e riguarda la foto, se la rigira come fosse
un santino, e si accorge che è stata
ritagliata a stringere il primo piano sul soggetto e, tranne l’acqua in
bottiglia e il microfono, non lascia intravedere null’altro. E guarda e
riguarda ancora, si accorge pure che a distanza di un giorno e mezzo dalla foto
in aeroporto, capelli e barba del nostro
eroe appaiono straordinariamente cresciuti e rinfoltiti. Miracolo? “Ma no! – si
risponde il nostro saggio cittadino- Un convegno, il 29 di agosto, di prima
mattina, in una Università
presumibilmente come tutte le altre chiusa o ad attività ridotta, deve essere
stato così noioso da stimolare i bulbi piliferi dei relatori e da essere
condannato per questo alla damnatio memoriae dall’Università stessa” . Perché
il cittadino medio mica è fesso, se le dà le risposte; mica è insensibile,
prova dispiacere di fronte a tanta sfortunata abnegazione di un Consigliere. E
si chiede, soprattutto si chiede, perché essere così atroci da continuare a
rovinargli le vacanze? Vogliamo mettere? È solo un Consigliere e non si gode un giorno. E se fosse
addirittura Presidente? Se dovesse preoccuparsi di garantire tutti i Lucani? Se
dovesse garantire l’indirizzo di una politica seria e responsabile? Ma no che
cattiveria! I suoi colleghi dovrebbero capire che in altri Paesi, per esempio
nell’Inghilterra di lord Gianni, di fronte ad una circostanza così avversa,
sarebbe stato prescritto un lungo riposo da tutte le fatiche politiche. Siate
buoni in Regione! O almeno mostrateci una locandina o stampategliene una postuma
come anni addietro facevano fantasiosi esponenti nazionali, figli spirituali di
un altro intransigente leader di partito.
Anna R. G. Rivelli
°°°0O0°°°
I
FISSATI PER L’AMMINISTRAZIONE
(o
dell’Hully Gully nella città di Potenza)
di Anna R. G. Rivelli
da "Il Roma" del 14 agosto 2017
da "Il Roma" del 14 agosto 2017
Konrad Adenauer, tra i primi promotori di quei
processi di cooperazione europea che sarebbero giunti fino alla UE, scriveva
che “La storia è la somma totale delle
cose che avrebbero potuto essere evitate”. Con la suggestione di tale
aforisma, tocca guardare a questi tre anni della città di Potenza; tre anni che
nella storia, intesa come totale di cose evitabili, hanno già impresso le
impronte di molti uomini, fermo restando che ognuno a suo modo si è dato da
fare per evidenziarsi con un proprio perché. Così, tanto per prenderne uno a
caso, l’assessore Coviello sarebbe ben potuto restare negli annali per essere
rimasto assessore “a titolo personale” dopo essere stato epurato dal partito di
appartenenza insieme al collega Bellettieri, ma, avendo voluto strafare, ci
resterà forse per il video, orgogliosamente costruito e diffuso, in cui
recupera una carcassa di lavatrice da un ciglio di strada boscoso tra applausi
e batti cinque dei presenti proprio mentre nel backstage (cioè in tutto il
resto fuori onda della città) i topi si moltiplicavano e una differenziata nata
con patologia autoimmune rendeva invivibili rioni e contrade. Ma poiché non c’è
personaggio storico senza frase celebre, ecco che il nostro, evidentemente più
arguto per la politica in social che per le politiche sociali, si è prodotto su
facebook in un’espressione memorabile con la quale intendeva sminuire la voce
di chi sottolineava da tempo i “misfatti” di Piazza Matteotti. Scriveva più o
meno che tutto andava per il meglio e che tutti vivevano felici e contenti
tranne qualche “fissato per l’amministrazione” che continuava a cercare
pretesti per attaccare Sindaco, Giunta e Consiglio tutto. L’espressione
ovviamente era destinata a rimanere proverbiale, perché nella narrazione sapientemente
imbastita dai nostri amministratori, i cantori di altre gesta meglio era
sbaragliarli con la stigma del rancore, dell’inimicizia politica,
dell’interesse personale e di tutto quell’armamentario di negatività che la
parola “fissato” prontamente trascina con sé. Ma la storia, si sa, è
imprevedibile, cosicché a rendere famigerata più che famosa cotanta
definizione, è intervenuto un fatto nuovo, una specie di Hully Gully a cui
tutta la città ha iniziato finalmente a prendere
parte. Così, come nell’allegra canzoncina anni ’60, se prima era uno a ballare
l’Hully Gully, adesso sono in tanti a ballare l’Hully Gully. Da giorni e
giorni, infatti, le denunce si sono spostate dai social ai giornali e si sono
fatte sempre più chiare e circostanziate. La differenziata non funziona, le
scale mobili sono un disastro, i contratti puzzano, le strisce blu si
moltiplicano, alle interrogazioni non ci sono risposte e, dulcis in fundo, si
producono ad arte nuovi disoccupati. Così ballano i cittadini, i Sindacati,
l’Adoc, ecc… e qualcuno pure canta perché un Pittella ascolti, ma pare non ci
sia nulla da fare perché tutto è, ovviamente, in nome del bene della città.
Perciò vengono in mente altre parole, frasi celebri di altri personaggi che nel
cambiare casacca scrivevano “… oggi il
mio posto è altrove, nel Movimento dei Democratici e Progressisti dove provare
ad affermare da sinistra un diverso punto di vista che porti a un cambio delle
politiche…”. Così anche Iudicello passerà alla storia, ben piazzato sulla
poltrona da cui dice di voler “costruire
il futuro della Sinistra moderna e riformista in Italia e in Basilicata”,
facendo coro a chi da Roma intona “Siamo
i Vatussi” , lato b di un disco rotto che non incanta più.
°°°0O0°°°
QUANDO IL SILURO È INTELLIGENTE
di Anna R. G. Rivelli
da "Il Roma" del 4 agosto 2017
“Il Consiglio
regionale rappresenta la comunità regionale ed esprime l’indirizzo politico
della Regione”.
“Il Presidente
garantisce, con imparzialità, il corretto svolgimento dei lavori consiliari”.
Tanto
si legge nello Statuto della Regione Basilicata, rispettivamente all’articolo
24 comma 1 e all’articolo 27 comma 4. Sono due asserzioni importanti che, pur
nel caos che attanaglia il PD locale e nel sospetto ormai perennemente ingenerato
nell’opinione pubblica di fronte ad ogni atto politico posto in essere,
dovrebbero ritenersi sufficienti a non far leggere la mancata staffetta Mollica-Pace
come una questione di screzi interni o di guerre tra bande o di giochi di
poltrone. O almeno, una volta tanto, si potrebbe leggere la cosa anche dal
punto di vista di un cittadino qualsiasi che prende sul serio lo Statuto, il
senso della rappresentanza di una intera comunità attribuita al Consiglio,
nonché quello di una necessaria imparzialità di chi lo presiede.
In
primis va detto che una “staffetta” tra presidenti o assessori, specialmente
quando avviene in tempi relativamente circoscritti, è sempre da vedersi come un
gioco di relazioni e accordi di convenienza tra esponenti di partiti che hanno
una pur legittima necessità di veder riconosciuto un proprio peso; nulla, però,
questi accordi hanno a che fare con il benessere della comunità, posto che
tutti coloro che a vario titolo ci rappresentano dovrebbero lavorare
costantemente nell’interesse di tutti. Insomma, cambiare un presidente o un
assessore avrebbe valore positivo per la comunità solo ed unicamente se si
sostituisse un incapace comprovato con un’eccellenza sicura, altrimenti il
cambio va considerato nell’ottica del tutto diversa che è, appunto, quella
delle relazioni politiche. Ecco perché dal punto di vista dell’interesse comune, la
mancata elezione del consigliere Pace alla Presidenza del Consiglio non può che
essere salutata come una benedizione, perché un organo che “rappresenta la comunità regionale ed esprime l’indirizzo politico
della Regione” non può essere rappresentato da chi nell’espletare il suo
ruolo di consigliere ha ben dimostrato
di avere in spregio l’uguaglianza dei cittadini, la salvaguardia dei diritti
comuni e persino il principio di laicità a cui si ispira la nostra
Costituzione. Quale imparzialità, quale garanzia ci sarebbero per i cittadini? Il
consigliere Pace, sia ben chiaro, ha tutto il diritto di tenersi le proprie
opinioni (anche se va sottolineato che l’omofobia non è un’opinione e che la
laicità dello Stato è un principio inderogabile), ma non può certo pretendere
di rappresentare tutta la comunità né tanto meno di esprimere l’indirizzo
politico della Regione che “riconosce la
persona come centro di valore, soggetto di diritti e doveri senza distinzione
alcuna e considera l’identità personale di ogni individuo come una qualità
assoluta, unica e irripetibile… concorre alla tutela dei diritti della persona
e opera per superare le discriminazioni legate ad ogni aspetto della condizione
umana e sociale… rifiuta ogni forma di violenza e discriminazione, opera per
prevenirne e rimuoverne le cause …” (art.5 Statuto Regionale). Con la palma
del consigliere anti-gender, il certificato di referente di crociati nostrani
in preghiera davanti ai musei, Aurelio
Pace, infatti, non potrebbe mai essere quel presidente a cui, con la certezza
di essere compreso ed accolto, un Gaber potrebbe rivolgersi dicendo “ Mi scusi Presidente, ma ho in mente il
fanatismo…”.
Se
poi si vuole aggiungere il fatto che i lucani possono anche essere afasici, ma
la memoria ce l’hanno lunga, va ricordata una certa riunione “carbonara”, mai
smentita del tutto dagli stessi protagonisti e mai ancora chiarita, alla quale
il nostro mancato presidente prese parte e della quale la stampa dell’epoca riportò
poco nobili motivazioni; ed ecco che il cerchio si chiude del tutto a favore di
un Franco Mollica suo malgrado tetragono nella postazione in cui è. Perciò, se
siluramento c’è stato, una volta tanto si può prendere atto che almeno si è trattato di una bomba intelligente.
°°°0O0°°°
MUTATIS MUTANDIS
Il moralismo è morale
andata a male
di Anna R. G. Rivelli
da "Il Roma" del 14
luglio 2017
Si potrebbe non credere che siano
passati quasi cinque secoli da quando uno zelante Daniele da Volterra si
adoperò per infilare le braghe a santi e sante della Sistina, arrivando
addirittura, come nel caso delle figure di Santa Caterina d’Alessandria e di
San Biagio, a distruggere e rifare l’affresco michelangiolesco poiché gli appariva
oscena la posa della santa nuda chinata con il santo alle sue spalle ripiegato
su di lei. Era il 1564, ma nonostante questi 450 anni che ci separano dalla
solerzia del “Braghettone” ( è questo il
nome con cui è da allora conosciuto lo scrupoloso artista) ancora è molto
attivo il popolo delle mutande, quello che è capace di strumentalizzare, a fine più politico che morale ovviamente,
qualsiasi cosa pur di ricordare la propria esistenza ad un mondo che, per la
verità, la ignora. E così ci ritroviamo a Potenza come nella Capitale, al Museo
Provinciale come nei Musei Capitolini, a girare di faccia al muro (e già, è
questo che è stato fatto seppure solo per qualche ora nel Museo di Potenza)
alcune opere della mostra “Intramoenia”, inaugurata lo scorso 7 luglio, e non
già per la visita di un Hassan Rouhani, ma per
la “condanna” di una cittadina scandalizzata da alcune immagini. Purtroppo
però, come scrisse Pasolini, “Chi si
scandalizza è sempre banale; ma, aggiungo, è anche sempre male informato”.
E chi è male informato dovrebbe avere l’umiltà di informarsi prima di puntare
il dito e ergersi a moralizzatore e censore. Insomma, per essere espliciti, chi
non capisce l’arte e neanche ha voglia di capirla, dovrebbe evitare di
sollevare polveroni che potrebbero facilmente ritorcerglisi contro. Cominciamo
con le puntualizzazioni dunque. La Presidente del Popolo della Famiglia
(notoriamente popolo di percentuale da prefisso telefonico) solleva il problema
di una Istituzione pubblica che ospita una mostra ritenuta “fosse
anche solo dal Popolo della Famiglia” offensiva della sensibilità; non mi
pare abbia mai invece sollevato il problema di patrocini, sponsorizzazioni e
spazi pubblici offerti a mostre d’arte sacra con il loro gran tripudio di
immagini di morte spesso raccapriccianti, probabilmente capaci di ferire la
sensibilità di persone, sicuramente più numerose di quelle appartenenti al
Popolo della Famiglia, che ritengono le istituzioni pubbliche laiche e che
potrebbero voler difendere i loro figli dalla violenza che si sprigiona da
certi martiri o Ecce Homo. La signora grida allo scandalo anche per la nudità
di tre fanciulle coperta da una immagine della Madonna; l’opera in questione,
di Dario Carmentano, è stata da lui stesso ben “spiegata” e inserita in un
contesto di denuncia che ( ah, la scarsa informazione!) non solo non è offensiva,
ma è addirittura in difesa di determinati valori oggi troppo spesso
assoggettati al marketing e alla superficialità. Ma se anche l’eccellente
artista materano avesse taciuto, solo chi fa della strumentalizzazione la
propria professione poteva trovare nella sua opera qualcosa di indecente. Pur
volendo infatti assoggettarsi a considerare la nudità un gran peccato ( ditelo
poi ai Rubens, ai Michelangelo, ai Guttuso ecc…), un’immaginetta di Maria che
copre l’ “indecenza” andrebbe letta più come un intervento salvifico nei
confronti delle tre “peccatrici” che come un’offesa nei confronti della Madonna.
Ma “a far indignare il Popolo della
Famiglia è la possibilità che questa mostra possa poi essere vista da bambini e
scolaresche…” aggiunge la Presidente. E così finiscono di faccia al muro
anche le sbigottite pudenda di un ritratto firmato da Pino Lauria, un
Crocifisso in equilibrio sul naso del blasfemo Carmentano ed un altro Lauria in
versione satiro con l’aureola. Certo che i bambini non le reggerebbero immagini
così. Non le reggerebbero allo stesso modo di come mai potrebbero reggere i
genitali del Cristo di Brunelleschi che penzolano dalla croce, o il fallo
marmoreo del michelangiolesco Cristo della Minerva, o ancora i seni sprizzanti,
sensualmente offerti dalle tante madonne del latte. E tra queste, se volessimo
prenderne una a caso, come una scolaresca innocente potrebbe mai reggere la
blasfemia dell’algida Madonna di Jean Fouquet? Come le si potrebbe mai spiegare
che sotto il nome di “Madonna del latte in trono con il bambino”, nei panni
ricchi e sensuali di una regina si cela il ritratto di Agnès Sorel, amante di
re Carlo VII, nota per la bellezza del suo seno che amava scoprire
abbondantemente? Come non trovare scandalosa e blasfema l’ipocrisia di
sacralizzare una cortigiana? E perché dovremmo credere che le tornite figurine
rosse che contornano una “vergine” così profana siano serafini e non angeli
infernali? Da quanti secoli queste immagini violentano l’innocenza dei nostri
figli nelle Istituzioni pubbliche in cui li portiamo per accrescere la loro
cultura e addirittura nelle chiese in cui li portiamo per pregare? Non sarà
scandaloso che le nostre bambine apprendano l’anatomia del maschio, in tenera
età, dai genitali dei santi? O che chiedano spiegazioni sul gesto
inequivocabile della fanciulla che, in un quadro del Rubens, offre il suo seno
a un laido vecchio? Come glielo spieghiamo che quella è l’allegoria della
carità filiale?
Ovviamente, prima che
si scandalizzi di nuovo ( due scandali a breve distanza potrebbero certo far
male alla Presidente), tengo a precisare che c’è chi è convinto che nell’arte,
e quindi anche in tutte le straordinarie
opere citate, fermare la propria attenzione sui retroscena o sui bassoventre e
i fondoschiena equivale a contemplare il Creato soffermandosi sui pruriginosi
ponfi delle zanzare; perciò non credo ci sia possibilità che qualcuno, benché
bambino, subisca shock né per il nudo di Cristo né per l’aureola di Pino
Lauria. Insomma, si può anche capire che
le lotte iconoclaste possono tornare utili per dar fuoco al poco spirito di cui
si dispone, ma sarebbe scaltro comprendere che di questi incendi non è mai
morta la civiltà né l’arte. E diciamolo: il pretesto una volta è il gender, una volta è Fa’afafine,
un’altra il Pride, stavolta Carmentano. Non credo tuttavia che la signora
Giorgio o le interrogazioni dei suoi referenti politici possano sperare di
spaventare il mondo più di quanto non lo abbia spaventato il terrorismo fondamentalista che continua a minacciare di
far saltare in aria il duomo bolognese di San Petronio per via di quel Maometto
seviziato e collocato all’inferno nell’affresco quattrocentesco di Giovanni da
Modena. In realtà se ci pensa, gentile signora, i fondamentalisti ragionano con
la stessa stringente logica del suo
Popolo della Famiglia e in questa logica avrebbero pure ragione, perché di
certo il Profeta torturato, umiliato e condannato al fuoco eterno non è proprio
un bel vedere per la sensibilità religiosa di chi ha un credo diverso dal suo.
Ma, ci scommetterei, che lei direbbe che chi si sente offeso può anche
andarsene dal nostro Paese. Ecco. Ottima idea. Chi si sente offeso, non vada al
museo e non ci porti i figli.
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