"Il ragno" (booktrailer)




"La difficoltà di essere donna nella società contemporanea solo apparentemente evoluta, l’ipocrisia di una famiglia borghese, la castrante misoginia di un padre, la lotta per l’affermazione di sé, l’amore per la vita e la scoperta sconvolgente di un mondo oltre il mondo narrati in prima persona con amara ironia e inspiegabile ottimismo da una giovane donna dei nostri giorni".
Virginia, una ragazza di quasi ventisei anni, vive un rapporto asfittico con una famiglia nella quale un padre profondamente misogino e una madre snaturata ed assuefatta ad un’ottica maschilista tentano di rinchiuderla in una gabbia di ipocrisia e di perbenismo. Una misteriosa figura di uomo risulterà fondamentale nel suo percorso di liberazione e di piena e totale accettazione della propria femminilità, ma nello stesso tempo le sconvolgerà l’esistenza rendendola partecipe di una dimensione altra e dimostrandole che non sempre può essere negato ciò che con la ragione non si può spiegare.


Presentazione del romanzo "Il ragno"

Sabato 26 marzo 2011 , presso l'Auditorium del Pontificio Seminario minore, in viale Marconi 104 a Potenza

La S. V. è cordialmente invitata
alla presentazione del romanzo di

Anna R. G. Rivelli
IL RAGNO
Edizioni Tracce


La manifestazione è organizzata dal Circolo Culturale "Silvio Spaventa Filippi" in collaborazione con il Liceo Ginnasio Paritario


PROGRAMMA
Saluti   

Vito Santarsiero
Sindaco di Potenza

Introduce

Santino G. Bonsera
Presidente del Circolo Culturale "Silvio Spaventa Filippi"


Presentano 

Lucia Serino
caporedattore de «Il Quotidiano della Basilicata»

Prof. Fancessco Saverio Lioi

Conclude


Vito De Filippo
Presidente Regione Basilicata


Sarà presente l’Autrice

Sull'Irno

Il cigolio dello sportello che si richiuse fu impercettibile lamento in un vortice di silenzio; l’asettica cadenza delle ultime parole di lui si era come ghiacciata ed era freddo improvviso sottile e pungente, senza eco di suono. Lei, ombra del suo coraggio, ignota a sé e alla sua meta, lo guardò ancora attendendo che il ritmo ineguale del suo respiro potesse richiamarlo al di qua del limite invalicabile che ella stessa aveva tracciato, complici i troppi chilometri, i troppi dubbi, i troppi anni. Ma i suoi occhi cattivi di necessaria dignità non le concessero nulla; scomparve in un attimo con la sua auto color della nebbia come ingoiato da un abisso inatteso, come se una biblica potenza avesse separato per lui le metalliche onde  di quel mezzogiorno, come se la muraglia minacciosa e incombente del curvone si fosse disgregata inerme al suo dolente passare.
Il traffico ronfava pigro quando lei riprese a seminare passi che non sentiva; un Irno scarno e solenne si incurvava nel greto di cemento increspato da bagliori difformi: era la pellicola ormai vuota che ancora scorreva sulle spalle di spettatori radi.   Lei non era più che un morso crudele nel cuore di sé, un dolore che nuotava subdolo nel sangue suo stesso raggiungendo ogni dove; lei era il dolore, pressante, reale, e incapace a sentirsi. Andava come il fiume inconsapevole verso il mare, circondata dal vuoto assoluto in cui le ridde di gabbiani e colombi, il freddo ceruleo del cielo, il profumo dolce della panetteria non avevano odore né suono o colore; la strada era un binario che la portava, un circuito che se si fosse interrotto l’avrebbe lasciata là, tra cose insensate povera cosa.  Il pensiero non le apparteneva più, come la croce sfuggente sui gradini di San Damiano, come le dita sull’ultimo biglietto.
Il treno soffiava un alito greve sulla campagna inerpicandosi verso il ritorno; sbigottito d’indifferenza l’interno premeva sul finestrino che si allargava man mano fino a divenire vetrata  nello studio di lui. Da quella vetrata un giardino spalancava primavere ed autunni primizie preziose, si fingeva bosco incupito, gridava sprazzi di luce imprevista e la contendeva alla voce di Gino, al suo tono imbronciato e forte, alle sue madonne, ai suoi marmi. Solo in fondo a quel bosco, dove il c’era una volta non è mai un anno e le fanciulle si lasciano sempre rapire, i suoi occhi sarebbero potuti appartenerle, le sue mani sfiorarla senza remora alcuna.
Ma la campagna precipitava a valle e il resistere del treno era un gioco di prestigio, il giorno una non voluta illusione e il vivere di lei solo un affronto, seppure qualcuno avesse potuto dirle che il non vissuto è l’unico eterno.

(da "Trascrizioni" 2010)

Oltremare

Il mare scintillava, scintillava pieno di vetri caduti da una finestra di cielo chiaro, aperto, dove per troppo splendore si era disfatto il sole in filamenti lucidi e granelli sfaccettati e puri come dentro uno scorcio di Seurat. Il mare si spingeva in fondo, in fondo nella linea azzurro immobile che ripropone il rischio, quello di una risposta che conosci, di una domanda che rifarai per sempre. Cosa mai c’è laggiù, su quella lama d’acciaio nuovo che trancia l’infinito, su quella corda tesa tra quello che non vedi e quello che non sai, dove pure continui a camminare funambolo di un mistero che ti attraversa e domina da sempre. Cosa c’è se non mare e altro mare e altro mare che ti inganna come il silenzio della notte, che ti chiama a un approdo come ai piedi dell’arcobaleno la pentola dell’oro che nessuno ha mai trovato ancora nonostante gli inverni, le piogge, i sereni. E se non fosse davvero così, se ci fosse veramente  un confine su quella fune oltremare, sopra quel ponte su cui il cielo si piega, su cui l’aria si versa e confonde, su cui forse potresti toccare quello che hai dentro e ti ostini a cercare lontano, quello per cui continui a dissipare con l’incertezza delle tue mani la sicurezza del tuo cuore.
Disteso sopra la spiaggia umida vagava di onda in onda con la sua mente torbida alla meta un uomo oscuro, un corpo levigato, un non finito che si sgretolava nella sabbia e dalla stessa sabbia si plasmava, dal suo colore d’ambra, dalla luce racchiusa nella polvere chiara; alle sue spalle la fuga di due pini si bloccava verso la strada e contro l’infinito, due pini inseguiti dal vento, l’uno sull’altro riversi e puniti nel loro stesso terrore, due anime colte da una metamorfosi improvvisa come la Dafne raggiunta del Canova.
L’uomo oscuro altro non aveva che da spendere questa sua eternità.

(da "Dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine" 2008)

Autunno alla frontiera del Pakistan

C’è un esodo di nubi
alla  frontiera
vaga
un convoglio d’autunno
inscritto
nel vento che verrà.

(da "Se il resto tace" 2004)

Che resti un dubbio

Che resti un dubbio
sulle righe dipinte
della pace
nel fondo dei pozzi
e degli scettri
e ci attraversi
come il silenzio pianto
degli ottoni
come l’assioma
di legni e di bandiere.

            Oggi non tocca
           a noi che il rosso
           di Nassiriya. 

(2003)

PROEMIO

Il quarto dell’Eneide fu l’ultimo. Non di pino o di leccio, ma di volumi la pira attendeva l’eresia del fuoco invadente. La scintilla fu il ruvido sì del pensiero e vorace iniziò. La fiamma che sgusciava liquida rovistava alla ricerca di un senso tra le pagine che si accingeva a ingoiare. Ventilabri e flabelli e pavoni si aprivano incandescenti nel rogo crepitando straniere galassie infernali; ogni pagina aveva un suo idioma e agitava una lingua diversa. Vincent fingeva l’estasi della vittoria immobile innanzi a quel fuoco; il balenio crescente e convulso dava ombre veloci al suo viso e lo mutava beffardo dilatando le gote e scavando nel fondo gli sguardi. La fiamma si proiettava motile cicatrice a tagliargli il sorriso, marcava il sottile pentagramma della sua fronte cui fugava il motivo e accendeva la notte della sua mente riversa in quell’unica idea: distruggere il genio. Più l’incendio cresceva, più il giovane, furioso e inaccessibile, divampava nella presunzione del suo eroismo e contemplava il delitto con la passione di Bruto e rantolava aneliti di libertà, lui, l’assassino di tutte le scienze, di tutte le arti tiranne di un mondo soggiogato all’estro, alla bellezza, al sapere o alla misura. Vincent il genio, rincorso dal prodigio della propria grandezza, incapace di sottrarsi alla presa del suo destino di gloria, si ribellava adesso ed orreva il sangue di Duncan sulle proprie mani e lo amava perché gli avrebbe reso lo scettro. In quel falò porte di mondi nuovi gli si spalancavano sormontate da vivide roste che pulsavano il paradosso della distruzione. In pochi attimi il fuoco divorava la storia, inceneriva le piramidi e il Partenone, sgranava il sorriso di Monna Lisa, confondeva eserciti ed armi, rubava versi ai poeti, sovvertiva le leggi dell’universo. Vincent non sapeva ridere. Guardava bruciare la grammatica, l’ordine logico del ragionamento e il risultato della trasgressione. Si ricominciava. Dietro quel fuoco si reinventava una preistoria mite dove l’uomo, ormai esperto, avrebbe preferito restare belva ignara, combattere il genio e il proprio istinto di esserlo. La memoria pareva liquefarsi nel calore e l’oblio si annidava nel respiro affannoso, nel denso calare del fumo; le vampe decrescevano sotto gli occhi di Vincent man mano che la catarsi si compiva e il colore del mondo cambiava. I bagliori che gli agitavano il viso si mutavano in caligine e presagio; la cenere si sbriciolava in coda alla fiamma ridisegnando geografie surreali e inesatte in cui si paventava la maledizione del fallimento. I brandelli, pochi, risparmiati alla furia si sottraevano al grigio e si incontravano nell’apocalisse a riproporre la vita. La sorte turbava l’estro e ricomponeva da forme scomposte una torre, uno sguardo, una flotta e un racconto, riscriveva leggi per un altro universo.
Vincent, sconfitto, seminò i suoi girasoli.

(da "L'immanenza" 2004)

Il divano rosso

   La piazza era lì come sempre, tetragona nelle sfumature terrose che si arrampicavano ai muri e la ancoravano al portale di pietra della cattedrale impedendo la fuga del lastricato oltre la strada; a quell’ora l’attraversavano a sparuti drappelli i ragazzini della dottrina, qualche cane  randagio e il passo sistematico di un vecchio che veleggiava col lembo scuro della sua sciarpa a quadri  alla panchina sotto l’ippocastano. C’era un sole come un pugno di zucchero in cielo, polveroso e lucente, che ingigantiva  l’attesa di un tardivo risveglio di primavera, ed un riflesso freddo, freddo di lenzuola stese a una ringhiera. C’era un odore ruvido di fumaioli e qualche eco di fritto e di stoviglie dai pianterreni  che spalancavano porte come morsi improvvisi, di tanto in tanto, sopra gli incogniti pensieri dei presenti. Tutto era lì, ma perdeva consistenza dentro gli occhi di Enzo come un frutto molle che si disfa nella sua buccia rugosa e muta colore e si chiazza d’acido e muffa sciogliendo umori densi e appiccicosi; Enzo se ne stava sui gradini della chiesa come l’ultima rima in un verso, come un punto lasciato cadere dopo la fine. Anna non c’era più, se n’era andata così senza parlare, lasciandolo da solo, ciondoloni come il suo cardigan nuovo dimenticato sopra il divano rosso.
   
(da "Divani" 2005)

La voce che scompone il buio

La voce che scompone il buio
nel chitone di pietra esterrefatto
di scale e avemaria,
laddove il nulla è un angolo appoggiato
al parapetto nudo del sagrato
e il mormorio dei morti appesi ai soffi
della collina
poco più in là rende assente la luna,
s’arrampicava
all’anima imbronciata
nel punto in cui la sera
cadeva a piombo come una moneta
e si faceva oblio.
E anch’ io
avrei voluto voce di torrente
per distrarre le dita del silenzio
sopra il mio segno
ed ali di angelo spezzate
perché il mio volo
fosse nulla tra nulla.

(2006)

Dentro questo universo

Non c’è meraviglia
che negli occhi dell’uomo,
lo stupore fu ignoto a quell’ora
che accese di lave il cuore del mondo.

  Tutto era. Esisteva più o meno dispersa ogni cosa dentro questo universo, ma non paga restava sospesa, silenziosa, annoiata, in attesa. Già era un tacito telo d’azzurro rispecchiato nelle acque profonde, un acuto fischiare di vento tra le ombre assolute del tempo, ma non c’era sorpresa e nemmeno paura, non un palpito sopra un tramonto né un ignoto terrore di tuono. Era cieco ed immobile il mondo, di perfetta e compiuta bellezza, senza un fine e senza coscienza.
  Poi l’errore irruppe per caso tra le cose presenti ed eterne e dell’eco dell’uomo si riempie l’impassibile suono del tempo. E non c’è più certezza che tenga, con il sonno coincide la veglia, con il riso confondi il lamento e la gioia si disperde nel pianto. E la vita si strugge e si danna, si arrovella e contorce, ma vive e il silenzio, se c’è, acquista un senso e il rumore sa anche atterrire. Nel suo sguardo si declina il giorno e una foglia ingiallita sa dire, ogni lembo sfrangiato di cielo è l’immenso negli occhi di un uomo.  

(da "Dentro questo universo" 2004)